PoliticaQuotidiano

Niente è cambiato: nel movimento “spintaneo” delle sardine l’eredità della vecchia sinistra

4.6k
Politica / Quotidiano

A chi, come il sottoscritto, ha superato il confine degli 80 anni, sì da aver vissuto personalmente l’intera storia di questa Repubblica, di movimenti spontanei largamente partecipati da giovani ne ha conosciuti parecchi, apprezzandone sempre la generosa genuinità, ma al tempo stesso costatandone a posteriori la relativa precarietà, dovuta alla estrema difficoltà di selezionare e trasformare la protesta in una struttura organizzativa e in una piattaforma propositiva. Per ora possiamo prendere atto di una capacità diffusiva notevolissima delle “sardine”, a partire dalla riuscita manifestazione in quella Piazza Maggiore di Bologna dove Beppe Grillo tenne a battesimo i 5 Stelle, destinati a diventare la prima forza nell’attuale Parlamento. Quindi un precedente ben augurale, se non fosse che allora il nemico da battere, con un florilegio di sfottò era l’establishment in senso lato, italiano, comunitario, internazionale, cioè il “potere”, dovunque fosse allocato e comunque fosse esercitato dai “pochi” nei confronti dei “molti”, tanto da mettere sotto processo la stessa democrazia rappresentativa a favore di una democrazia diretta esercitata tramite internet. Fu fin troppo facile qualificare il movimento come populista, cioè espressione di un popolo, in cui uno conta uno, secondo un indirizzo classificatorio già consolidato in forza di più di un precedente; come tale oggetto di un durissimo e tambureggiante attacco da parte di tutto il centro-sinistra, non alieno da trovargli come ascendente lo stesso fascismo, argomento classico di demonizzazione dell’avversario politico in auge fin dai tempi di De Gasperi.

Niente è cambiato, anzi si è accentuato nel corso del governo giallo-verde, dove non di rado si distingueva fra una Lega sovranista ed un 5 Stelle populista. Tutto pare, invece, essere mutato con l’avvento del governo giallo-rosso, come da ultimo proclamato ex cathedra dallo stesso Beppe Grillo, per cui il movimento da lui creato sarebbe divenuto adulto, maturando un volto del tutto nuovo, non più movimento, ma partito, non più né di destra né di sinistra, ma di sinistra. Ed è questo scenario di fondo ad essere per così dire anticipato dal manifesto delle “sardine”, perché dedicato ai “cari populisti”, senza peraltro impegnarsi a definire meglio i destinatari, perché non ce ne era evidentemente bisogno, essendo stata la manifestazione convocata in occasione della venuta di Salvini, tant’è che la regola è rimasta proprio quella, inseguire il “comandante”, di piazza in piazza, ovunque vada. Quindi i 5 Stelle non solo non sono più populisti, ma non lo sono mai stati, sì da andar esenti dal lungo elenco di diffide ed intimazioni relative agli ultimi anni di cui è disseminato il manifesto; i populisti sono stati e sono solo i leghisti. Dal che si deve dedurre che ormai quello che è divenuto da un giudizio politologico un vero e proprio insulto è riservato a coloro che non si ritrovano nel campo del centrosinistra, fossero anche la maggioranza del corpo elettorale.

D’altronde che il destinatario del manifesto sia solo Salvini, lo testimonia l’attacco all’insegna de “La festa è finita”, che riecheggia volutamente la salviniana la “Pacchia è finita”, seguito da una serie di affermazioni a conferma della sua campagna, soprattutto tramite la “bestia”, tutta all’insegna della menzogna e della paura. Niente di nuovo se non una assillante ripetizione di quel che la c.d. buona stampa e televisione contestano ogni giorno, senza fare alcun sforzo sulle ragioni vere di un così largo consenso testimoniato dalle elezioni europee e regionali, senza eccezione alcuna, ancor prima dei settimanali sondaggi. C’è sottesa una eredità della vecchia sinistra, caratterizzata dall’arroganza dell’essere l’unica depositaria della virtù politica e civile, come tale garante della democrazia consacrata dalla Costituzione, sempre esposta alla minaccia di una destra che comincia laddove la sinistra termina, la quale, come tale, è la sola a poter eleggere un presidente della Repubblica “legittimo”; e, al tempo stesso, la frustrazione di rimanere minoranza nel Paese, che ben traspare nella esibizione muscolare di essere “tanti, e molto più forti di voi” “già centinaia di migliaia, e siamo pronti a dirvi basta”, senza ricordare una vecchia lezione del lontano passato, sembra attuale anche se riferita alle elezioni del 1948: il Fronte popolare ha riempito le piazze, ma la Dc ha riempito le urne. Una frustrazione che sfocia in una intimidazione, laddove si sottolinea “e siete gli unici a dover avere paura”, “siamo noi che dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente”.

Già, la famosa maggioranza silenziosa, che certo non si recupera raccontandole la solita nenia che la fa povera di testa e ricca solo di pancia, anzi la si conferma, perché l’unica alternativa che le viene lasciata è una sorta di confessione collettiva in una pubblica piazza, qualcosa che riecheggia se pure alla lontana la rivoluzione culturale maoista. E la chiave di comprensione dell’intero manifesto è data da una affermazione per cui “grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola ma non il diritto di essere ascoltati”, dove si attribuisce implicitamente al movimento partigiano qualcosa che sta alla radice della loro mobilitazione, cioè di riconoscere un mezzo diritto a Salvini, cioè di parlare a un pubblico assente o assediato in uno spazio circoscritto, senza dar conto dell’ormai prevalente comunicazione tramite social enfatizzata proprio nello stesso manifesto.

Peccato, peccato veramente che ci sia un universo intero che non solo ascolta, ma premia Salvini, sicché anche questa di toglierli l’audience è solo una espressione di impotenza. Lo premia, purtroppo, a dispetto di quei “politici con la P maiuscola… che, pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono”. Anche qui è tutto fatto per ammiccamenti, così, prima, non si dice chi siano i populisti, ma si fa capire che sono i leghisti; e, poi, non si dice chi siano i politici con la P maiuscola, cui si riconosce realisticamente che dopo l’interesse generale si preoccupano anche del proprio, ma si lascia intendere che sono quelli attualmente al governo, anche se pochi fra loro, sì da far sospettare trattarsi dei pieddini.

Non discuto sul tono pacifico delle ormai ricorrenti convocazioni delle “sardine”, ma se quello messo on line è il loro manifesto, non è un testo pacifico, ma addirittura sferzante con una serie in crescendo di luoghi comuni, che come tali lasciano infastidito il lettore non prevenuto a favore. Si può cercare di capire quale ne sia la rendita elettorale nelle prossime consultazioni regionali; credo che certo contribuirà ad alzare la percentuale dei votanti, specie in Emilia Romagna, dove alle scorse consultazioni risultava al di sotto del 40 per cento, radicalizzando ancor più la contrapposizione fra centrosinistra e centrodestra, peraltro all’insegna del contro o pro Salvini. Un terreno non favorevole per Bonaccini, come egli stesso ha fatto capire chiaramente, perché lo sposta dall’amministrativo a quello politico, peraltro totalmente appiattito su un referendum sul “comandante”, che da parte sua fa di tutto per confermarlo, sì da compensare la debolezza della candidata leghista.

Il rischio, dimostratosi reale, nel recente passato è quello non di oscurarlo ma di esaltarlo nel suo interminabile tour elettorale. Tanto più che le “sardine” riempiono le piazze centrali delle città, laddove la sinistra è più forte, ma ignorano periferie, cittadine, paesi, villaggi, zone montane, dove è montante la marea leghista. Basta vedere una carta politica dell’Emilia Romagna per osservare dove si concentra il rosso lungo l’Emilia, con un mare circostante di verde.

Comunque buona fortuna per le “sardine”, che aspettano al largo lo squalo, fino ad ora, a loro dire, rimasto ancorato in un porto protetto. Certo se fosse uno solo, ma se fosse un intero branco a prendere il largo? Già, occhio al numero, perché in democrazia è quello che conta, a meno che, come mi sembra abbia detto Brecht, non riuscendo a cambiarne la mentalità, si cambi fisicamente la stessa gente.