No collusion e, dunque, no obstruction. Ora far luce sul vero scandalo: il sospetto Watergate di Obama

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Non c’è stata collusione tra la Campagna Trump e la Russia e, dunque, nemmeno ostruzione alla giustizia da parte del presidente. Queste le conclusioni del cosiddetto Russiagate, l’indagine guidata dal procuratore speciale Robert Mueller. Riguardo la collusione, “l’indagine non ha dimostrato che membri della Campagna Trump abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle sue attività di inteferenza nelle elezioni”, ha concluso Mueller. Riguardo l’ipotesi di ostruzione alla giustizia, non è arrivato a una conclusione, né in un senso né nell’altro, il rapporto “non conclude che il presidente abbia commesso un reato ma allo stesso tempo non lo esonera”.

Nel suo rapporto Mueller si è limitato a descrivere le azioni del presidente che prefigurano una condotta potenzialmente ostruzionistica e a portare argomenti a sostegno di entrambe le tesi, lasciando al Dipartimento di Giustizia determinare se il presidente abbia o meno commesso un reato. L’Attorney General William Barr e il suo vice Rod Rosenstein hanno concluso che non ci sono prove di ostruzione alla giustizia. E questo perché, secondo i principi guida del Dipartimento nei procedimenti penali, per sostenere e ottenere una condanna per ostruzione l’accusa deve dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che ci sia un crimine che giustifichi la volontà di ostacolare in modo illecito la giustizia. Insomma, senza un crimine da coprire non può esserci ostruzione. La decisione del Dipartimento di giustizia invece non si è fondata sulla tesi autorevolmente sostenuta dal celebre avvocato liberal Alan Dershowitz (ma non l’unico), secondo cui un presidente non può essere accusato di ostruzione alla giustizia per il mero esercizio dei suoi poteri e delle sue prerogative costituzionali, a prescindere delle sue motivazioni, da ritenere insindacabili. E il riferimento è al licenziamento dell’ex direttore dell’FBI Comey e al potere di grazia. Può essere chiamato a rispondere politicamente, dal Congresso, dell’abuso di tali poteri, ma non penalmente da un procuratore mosso dal sospetto che il presidente abbia agito per fini inappropriati.

Chiariamo anche che nel rapporto Mueller possono esserci, anzi certamente ci sono elementi a sostegno dell’ipotesi della collusione, che saranno usati nelle prossime settimane per rilanciare la narrazione del Russiagate, ma i fatti parlano chiaramente: Mueller ha chiuso la sua indagine senza procedere a ulteriori incriminazioni e senza raccomandare di incriminare il presidente Trump. Non ci sono i presupposti per incriminarlo né per “collusione”, né per ostruzione alla giustizia o falsa testimonianza. E le accuse mosse contro i membri della Campagna Trump non riguardano cospirazione e spionaggio, ma false testimonianze, frodi e reati finanziari che nulla hanno a che fare con Trump e la Russia. Anzi, la ricostruzione dei fatti, dei loro contatti, dell’attività di ricerca di informazioni per la campagna, dimostra l’assenza di un rapporto tra la Campagna Trump e gli apparati del Cremlino volto a influenzare il voto. Possibile, se fosse esistito, che tutti i personaggi coinvolti si siano mossi in modo da apparire ignari della sua esistenza?

Il lavoro di un procuratore, almeno nei sistemi civili, non è provare l’innocenza oltre ogni ragionevole dubbio, ma la colpevolezza. E la decisione di non procedere oltre per mancanza di prove sufficienti a sostenere una qualsiasi accusa equivale a un proscioglimento. Gli elementi raccolti però, come abbiamo già sottolineato in passato, potrebbero in teoria essere ritenuti sufficienti dal Congresso per avviare una procedura di impeachment del presidente, dal momento che la sua valutazione delle condotte presidenziali è in ultima analisi politica. Il Congresso non ha bisogno di un reato per mettere in stato d’accusa un presidente. Dubitiamo però che i Democratici, che controllano la Camera, intendano procedere su questa strada: “Non ne vale la pena”, aveva detto già due settimane fa la speaker Nancy Pelosi: “Non sono a favore della messa in stato d’accusa. L’impeachment è così divisivo per il Paese che, a meno che non ci sia qualcosa di così stringente e soverchiante e bipartisan, non penso che dovremmo percorrere questa strada”.

Ad uscire con le ossa rotte dal Russiagate sono innanzitutto i media liberal e i copia-incollatori italiani. Ricordate quanti titoli “il cerchio si stringe intorno a Trump” e le numerose varianti che suggerivano una smoking-gun all’orizzonte? La loro credibilità ne esce letteralmente stracciata, a brandelli. Cosa ci dobbiamo aspettare di leggere e sentire ora? Ci saranno gli inconsolabili, quelli che proseguiranno con la narrazione del Russiagate – e il rapporto Mueller non mancherà di fornire materiale (narrativa, più che giornalismo) – e poi ci saranno gli sbianchettatori, quelli che cadranno dalle nuvole e si prodigheranno in un grande sforzo per negare/cancellare di aver mai spacciato certezze. Ma l’ossessione e la vera e propria isteria dei media mainstream per il Russiagate, tranne rarissime eccezioni, è un fatto, provato sulla propria pelle dai pochissimi che in questi due anni hanno osato contraddire il teorema o anche solo dubitare della collusione Trump-Russia, e che si sono visti trattare con scherno, quando non zittiti ed emarginati. “No Trump-Russia Conspiracy”, titola oggi persino il New York Times, mentre per Repubblica si tratta di un “verdetto ambiguo” e stamattina online si faceva persino fatica a trovare la notizia… Di sicuro non è ambiguo il verdetto su Repubblica e gli altri nostri giornaloni.

Non solo un proscioglimento per Trump e una disfatta per i media mainstream, è un bruciante atto di accusa all’FBI e al Dipartimento di giustizia di Obama, come ha scritto Kimberly Strassel del Wall Street Journal, una delle poche a smarcarsi dal coro. Se apri un’inchiesta su una campagna presidenziale, con un’accusa così grave di “intelligenza col nemico”, e strumenti così pesanti e invasivi come le intercettazioni, dovresti preoccuparti di avere qualcosa di più che fondato in mano. E se dal rapporto Mueller, dopo due anni di indagine, emerge che non ci sono elementi sufficienti a incriminare nessuno per la cosiddetta “collusione”, difficilmente potevano esserci già nell’estate del 2016, quando l’FBI aprì e mantenne aperta un’indagine di controintelligence – che non prevede le garanzie di un’inchiesta penale. I Democratici, e non solo, chiedono giustamente la pubblicazione del rapporto in nome della trasparenza, o per continuare a fare lo spin dello spin, ad alimentare la narrativa della collusione. Ma l’indagine Mueller è solo metà della storia. Il pubblico ha diritto a una piena declassificazione, a una totale divulgazione degli elementi di prova su cui, mesi prima del voto del 2016, l’amministrazione Obama ha deciso di fatto di monitorare la campagna presidenziale del partito di opposizione. Fuori tutto, non solo il rapporto Mueller: dalle richieste di mandati FISA ai rapporti sull’apertura e la continuazione dell’indagine; dalle audizioni segrete dei testimoni agli elementi che hanno portato alla nomina di un procuratore speciale pur senza una definita ipotesi di reato e senza indicare il presidente tra i sospettati.

Occorre far luce sulle origini del Russiagate. Per quanto ne sappiamo ad oggi, l’FBI ha aperto l’indagine di controintelligence sulla Campagna Trump e richiesto mandati di sorveglianza FISA nell’estate del 2016 sulla base della conversazione di un consigliere di terzo piano della campagna, George Papadopoulos, e del dossier Steele – un dossier fasullo, commissionato e pagato dalla Campagna Clinton e confezionato da fonti russe (collusione che non ha suscitato molto interesse). Dipartimento di Giustizia e FBI sapevano che mentre ne venivano in possesso il dossier veniva girato ai media? Ed è vero che si sono dimenticati, guarda caso, di dire alla Corte FISA chiamata ad autorizzare la sorveglianza che 1) il dossier proveniva da fonti partisan ed estere e 2) che le informazioni in esso contenute non erano state verificate?

L’FBI è stata tratta in inganno (e da chi?) per destabilizzare la politica americana? O peggio, usata dall’amministrazione Obama per avvantaggiare Hillary Clinton e, perse le elezioni, creare i presupposti e fornire il materiale per una campagna di delegittimazione del presidente eletto? Quella “polizza assicurativa” di cui parlavano nei loro messaggi i due agenti dell’FBI anti-Trump, Peter Strzok e Lisa Page – il primo al centro dell’indagine sulle interferenze russe e sulla Campagna Trump, poi rimosso dal team Mueller. Sarebbe un caso persino più grave del Watergate nixoniano.

Fatto sta che proprio mentre decollava il dibattito sulle fake news diffuse tramite i social network da estremisti e troll russi, la più grande bufala della nostra epoca veniva alimentata con i potentissimi mezzi dei media più “autorevoli” del pianeta sulla base dei leaks provenienti da una delle più potenti agenzie di law enforcement e controspionaggio che sia mai stata a disposizione di un potere politico. È possibile che a rispondere a queste domande sia presto chiamato un nuovo procuratore speciale.

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