Non solo “frugali” contro “sussidiati”: la retorica mediterranea del “siamo tutti sulla stessa barca” si scontra con il realismo dei Paesi nordici: ciascuno è sulla sua di barca. E c’è chi naviga su imbarcazioni solide e chi, invece, si barcamena. Più che comprensibile che i primi non vogliano rischiare di imbarcare acqua: meno sussidi, più prestiti e meccanismi d’emergenza
Un’alba storica per l’Ue, perché sono le 5:31 di martedì 21 luglio quando il presidente del Consiglio europeo Charles Michel twitta che l’accordo è finalmente stato raggiunto. Il Recovery Fund si farà, a partire dal 2021. Riunioni fiume, notti insonni, battaglie di dichiarazioni e guerra di numeri hanno scandito il tempo del maxi-vertice a Bruxelles, con 750 miliardi sul piatto ripartiti tra presiti e aiuti a fondo perduto. All’Italia ne spettano 209, dei quali 127 sono prestiti. Il 70 per cento degli aiuti a fondo perduto dovrà essere impiegato tra il prossimo anno e il 2022, il restante 30 nel 2023.
È un complicato intervento economico che guarda avanti e prevede investimenti nei settori dell’energia “verde” e del digitale e punta a rafforzare le finanze pubbliche degli stati colpiti duramente dalla crisi provocata dalla pandemia. Uno sforzo per garantire serenità alla futura generazione europea (Next Generation EU è infatti il nome che accompagna l’ambizioso progetto), ma che modifica anche gli equilibri all’interno dell’Unione. I piani presentati dai singoli stati sull’impiego degli aiuti dovranno ricevere l’approvazione da Consiglio europeo con una maggioranza qualificata e saranno sottoposti anche agli occhi critici del Comitato economico e finanziario all’interno del quale, se qualche nazione sentirà puzza di bruciato, potrà intervenire azionando il cosiddetto “freno di emergenza” e rallentando l’erogazione di fondi.
Molti dettagli restano da definire, specie sui ruoli del Consiglio europeo e dell’Ecofin – che raggruppa i ministeri economici dei Paesi membri – qualora venisse azionato il meccanismo di controllo, ma altri appaiono ben più delineati.
Perché se le operazioni di persuasione condotte da Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno infine dato frutti, è altrettanto vero che lo scontro sul Recovery Fund ha accentuato le tensioni tra gli stati del Nord, il blocco franco-tedesco e i Paesi mediterranei, segnando un deciso cambio di stagione: in passato la cancelliera tedesca aveva avuto vita più facile su Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Finlandia. A questo giro, invece, il primo ministro olandese Mark Rutte nell’immaginario comune ha indossato fino alla fine i panni del tirchio insensibile e se qualcuno ha ripescato dalla memoria il cucchiaio con cui Francesco Totti infilzò la nazionale olandese agli Europei del 2000 per celebrare il nuovo accordo, basterebbe ricordare che l’Italia si ritrova con 38 miliardi in più di prestiti e 3,8 miliardi in meno di sussidi a fronte di una contrazione del Pil stimata attorno all’11,2 per cento – e con una base di partenza non certamente solida -, mentre per i Paesi Bassi si prevede un -6,8 per cento, ma con i conti in ordine. Gli effetti di una gestione frugal, che sarebbe più opportuna tradurre in parsimoniosa, caratteristica che non appartiene al dna degli stati mediterranei, Italia compresa.
Un’unica unione, ma due mondi diversi che da tempo convivono all’interno degli stessi confini, a grande fatica e mettendo in risalto le debolezze di un farraginoso impianto burocratico e amministrativo. Se da Sud si invoca a più riprese la necessità di collaborare perché ci si ritrova “tutti sulla stessa barca”, da Nord è arrivata la risposta anseatica per cui non è vero che l’imbarcazione sia uguale per tutti: c’è chi naviga su navi più solide, chi su altre rattoppate e malmesse. Dato che i fondi destinati alle manutenzioni provengono anche dalle tasche dell’Aja, di Copenaghen, Stoccolma ed Helsinki, queste si raccomandano che non servano per chiudere una falla, aprendone una seconda più grossa come insegnano i precedenti.
Il tentativo, da parte di alcuni commentatori, di giustificare l’approccio del liberale Rutte come una strategia per arginare le spinte populiste in patria, è comprensibile per chi dà voce alla retorica della stessa barca, ma non regge. Perché se è vero che a dargli man forte c’era il Popolare austriaco Sebastian Kurz, è altrettanto vero che Rutte ha potuto contare sull’appoggio di tre esponenti del modello socialdemocratico scandinavo: la danese Mette Frederiksen, lo svedese Stefan Löven e la finlandese Sanna Marin, la 35enne che aveva infiammato i cuori progressisti grazie alla sua storia ambientalista, europeista e inclusiva. In piena estate ha raggelato molti amori con nordica freddezza.
Non si può quindi ricondurre tutto ad un mero calcolo politico per arginare “sovranisti e populisti”. Quello in corso è uno scontro tra approcci e mentalità opposte che fino a pochi mesi fa poteva essere sopito con l’intervento di Berlino, ma che di fronte alle scosse del terremoto Covid-19 rischia di deflagrare in seno all’Ue. Gli isolani britannici alla lunga hanno preferito salpare, senza che nessuno prendesse seriamente in considerazione la minaccia. Sarà anche l’alba di un giorno nuovo, ma ci sono molte nuvole in cielo.