“E pluribus unum”: se finora l’Unione americana si è retta proprio sul rispetto delle diversità degli Stati che la compongono, la volontà progressista di uniformare distruggendo il passato è la peggior minaccia alla stabilità. Non è divisivo Trump, che rispetta la storia anche dei nemici storici del suo Partito e dell’Unione. È divisivo chi getta di nuovo il cerino della guerra fra Stati
L’ignaro viaggiatore europeo negli Stati Uniti può rimanere sorpreso da un particolare aspetto degli Stati ex Confederati (il Sud): i monumenti. Normalmente il vincitore impone i suoi monumenti al vinto. E così noi abbiamo tante statue di Garibaldi al Sud, ma nessuna dedicata ai Borboni e ai loro eroi (che ci saranno pure stati…). In Francia, in Vandea, troviamo monumenti a Napoleone e agli eroi della Repubblica, ma nessuno ai martiri che provarono a resistere allo sterminio della Rivoluzione. Da noi si dà per scontato. Negli Usa no. E così abbiamo il monumento del generale Robert E. Lee, comandante in capo delle forze Confederate, a Richmond (Virginia, ex capitale della Confederazione) e in tante altre città del Sud. I disordini di Charlottesville, nel 2017, scoppiarono fra estremisti di destra e di sinistra proprio attorno alla proposta di abbattere un monumento equestre di Lee.
Le rimozioni delle statue e i divieti di sventolare la bandiera della Confederazione mirano a cancellare la memoria del vecchio Sud. Ritenuti dei tributi al razzismo e allo schiavismo del XIX Secolo, sia dai progressisti che da parte del mondo repubblicano, sono ora tutti nel mirino. A difendere questa memoria c’è soprattutto Donald J. Trump. Non solo protegge le statue di proprietà federale, ma anche la bandiera confederata e la toponomastica del Sud. Il presidente degli Stati Uniti, per esempio, si oppone al cambio di nome della grande base militare di Fort Benning, dedicata a un generale della Confederazione. Ha anche criticato la decisione della Nascar, l’associazione organizzatrice di corse automobilistiche, di bandire il vessillo sudista da tutti i suoi eventi. Le gare della Nascar sono molto popolari soprattutto negli Stati del Sud e la bandiera è abitualmente sventolata dai tifosi delle corse automobilistiche (ed è ben nota anche ai patiti d’automobili italiani, se non altro perché decora la storica auto Dodge Charger “Generale Lee” della serie Hazzard).
La difesa della simbologia e delle tradizioni sudiste viene descritta come “divisiva” da quasi tutti i commentatori. “Trump difende i razzisti e i suprematisti bianchi”, è la tipica character assassination in voga fra tutti i giornalisti che contano, sin dai tempi dei moti di Charlottesville. Se oggi si vede la prossima guerra civile come un conflitto etnico, Trump è visto come un tifoso dei “bianchi” nemico delle minoranze. Quindi divisivo. A lui si contrappone la memoria di Obama, il presidente inclusivo, che premette per far rimuovere le bandiere confederate dai luoghi pubblici dopo i disordini razziali scoppiati durante il suo mandato. O anche la repubblicana Nikki Haley che, quando era governatrice della Carolina del Sud, aveva fatto rimuovere le bandiere sudiste dalle istituzioni (“meglio che stiano nei musei”), subito dopo la strage dei neri nella chiesa di Charleston, nel giugno 2015, da parte di un suprematista bianco.
In un mondo alla rovescia come quello in cui viviamo, può sembrare ovvio che la difesa della tradizione e della simbologia confederata venga da un Repubblicano. Pochi ricordano che fu Lincoln, vincitore nordista della Guerra Civile, il primo presidente repubblicano. E qui inizia il cortocircuito culturale. Perché un Repubblicano dovrebbe difendere la memoria del Sud secessionista, che allora era governato da Democratici? Perché, dai decenni successivi alla fine della Guerra Civile, la politica trasversale di tutti i presidenti americani si è basata sulla riconciliazione e sul rispetto della memoria degli ex nemici. Non è stato un compito facile, soprattutto considerando il grado di devastazione della Guerra Civile: con i suoi 650 mila morti fu il più sanguinoso conflitto dell’Ottocento e la prima guerra totale propriamente detta, con tanto di mobilitazione dell’industria a scopo bellico e il coinvolgimento pieno delle popolazioni civili.
Trump stesso ha rivendicato più volte la paternità nobile di Lincoln del suo partito, ma non intende sopprimere la storia dell’ex nemico. Gli Stati Uniti hanno un federalismo autentico, non un centralismo all’europea, dunque anche la preservazione della tradizione locale è parte integrante dei diritti degli Stati alla loro autonomia. Così si può ammirare un monumento di Grant al Nord e di Lee al Sud, acerrimi nemici nella Guerra Civile (anche se si rispettavano cavallerescamente e ammiravano umanamente), ciascuno dei quali difendeva la propria terra, la propria gente.
La storia recente fa cadere le accuse peggiori. Lo schiavismo nel Sud (e negli Stati del Nord che lo praticavano) è stato abolito definitivamente nel 1865. Un secolo dopo è stata abolita anche la segregazione razziale. Il Sud non desta neppure più sospetti separatisti: ha combattuto nell’Unione e per l’Unione in tutte le guerre del Novecento, incluse le due guerre mondiali. Ha dato alla causa statunitense un enorme tributo di sangue e comandanti passati alla storia nella guerra contro il nazismo e i giapponesi, quali Dwight D. Eisenhower (generale e poi presidente), Douglas McArthur (comandante in capo delle forze di terra nel Pacifico e poi nella Guerra di Corea), gli ammiragli Chester Nimitz (comandante della Flotta del Pacifico dal 1941 al 1945) e Willis Lee (lontano parente del generale, vincitore della battaglia navale di Guadalcanal), solo per dire alcuni dei più celebri “sudisti” della Seconda Guerra Mondiale. Distruggere i monumenti del Sud, adesso, è unicamente uno sfregio gratuito da un punto di vista storico e politico. Riflette solo una mentalità progressista, che vuol processare il passato americano fino a Cristoforo Colombo e si sofferma con particolare accanimento contro tutto ciò che simboleggia il potere “bianco”. Così facendo denota però una tendenza fortemente prevaricatrice. Se finora l’Unione americana si è retta proprio sul rispetto delle diversità degli Stati che la compongono, questa volontà progressista di uniformare distruggendo il passato è la peggior minaccia alla stabilità. Non è divisivo Trump, che rispetta la storia anche dei nemici storici del suo Partito e dell’Unione. È divisivo chi getta di nuovo il cerino della guerra fra Stati.