Non ha ottenuto il voto ma è ancora in partita: i veri errori di Salvini e perché la crisi era un rischio che doveva correre

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Insediatosi il nuovo governo, possiamo soffermarci sullo sconfitto, o presunto tale, della situazione: Matteo Salvini. Ha chiamato l’all-in ma gli è andata male, non aveva un punto abbastanza alto in mano (o forse qualcuno ha barato…). Molto è stato già detto e scritto e l’opinione prevalente è che abbia commesso un errore ad aprire la crisi. Almeno nei tempi e nei modi, visto che in molti gli suggerivano di rompere. Il paradosso, infatti, è che forse Salvini e la sua cerchia sono tra coloro che più hanno creduto nel contratto con i 5 Stelle, anche troppo, a tal punto da accarezzare l’idea di un’alleanza non solo occasionale e a tempo determinato, come agli inizi auspicato da Steve Bannon. La Lega nordista, i governatori, la vecchia guardia legata alle esperienze di centrodestra, sono stati invece dall’inizio i più scettici e hanno spinto per la rottura sui temi dell’economia e dell’autonomia. Alla fine Salvini si è convinto.

Si è dato la zappa sui piedi, si è suicidato politicamente, ha consegnato lui il Paese al governo più di sinistra della storia, quindi ha poco da lamentarsi. Queste alcune delle sentenze lette e sentite in questi giorni, sia sulla stampa che sui social. Prima di emettere la sentenza, però, bisogna chiarirsi sui criteri di giudizio, che ci sembrano variare molto a seconda del giudice, e dare una corretta lettura della fase politica successiva alle elezioni europee che ha portato alla decisione del leader della Lega. E qui la confusione è ancora molta. Innanzitutto, se il criterio è che sia stato un errore perché qualunque fossero i motivi, la Lega non è più al governo, ed è sempre meglio starci che non starci, oppure perché non ha ottenuto la snap election in autunno, allora forse dovremmo smetterla di fingere di credere che la politica possa essere altro che mera occupazione di poltrone per incassare lauti compensi.

Il punto però è che, come qui su Atlantico abbiamo sottolineato più volte dalle elezioni europee (sarà inelegante dirlo, ma ci abbiamo visto giusto), la scelta che si trovava di fronte Salvini dopo il successo del 24 maggio non era tra due opzioni, una sbagliata e perdente, l’altra corretta e vincente. Ma era tra due strade entrambe molto accidentate, piene di condizioni avverse. Entrambe con pochi pro e moltissimi contro. Entrambe avrebbero potuto annientarlo, quella della rottura persino nel caso avesse ottenuto il voto anticipato. Certo, meglio uscire dalle urne trionfante con un 34 per cento che con un 17. Ma in termini di strategia politica di medio-lungo periodo – scrivevamo – la sua somiglia più a una posizione lose-lose: andare all-in, tentare cioè di andare a elezioni per “capitalizzare” il consenso raccolto, prendersi la maggioranza e arrivare a Palazzo Chigi, rischiando però di non ottenere il voto e vedersi scatenare contro l’inferno in ogni caso; oppure, accontentarsi con realismo dello status quo, pazientare, aspettare tempi migliori, rischiando però la cottura a fuoco lento, il “binario Alfano”?

Un dato che tutti danno per scontato, ma che invece è solo un effetto ottico frutto dell’efficacia della comunicazione del leader della Lega e del suo staff, è che prima della crisi avesse “in mano il governo”, che fosse lui a “dettare l’agenda”, e che potesse quindi tranquillamente restarsene al suo posto, continuare a svuotare di consensi le altre forze politiche bloccando gli sbarchi dal Viminale. Ma questo effetto ottico si deve essenzialmente all’ossessione suicida dei suoi avversari di demonizzarlo sul terreno della lotta all’immigrazione clandestina. Del resto, un altro dato di fatto da tenere a mente, è che nel Conte 1 la Lega aveva un solo ministero di peso e non è pensabile, nonostante – lo ripetiamo – per un anno abbia oscurato Conte e Di Maio, tanto da essere definito il vero premier, che Salvini potesse davvero riuscire a far avanzare la sua agenda dal Viminale. Se vuole davvero giocarsela, la sua partita, e non scaldare una poltrona qualsiasi, deve arrivare prima o poi a Palazzo Chigi. E l’unica via per lui sono le elezioni, non si scappa (mica è del Pd…).

La realtà del primo anno di governo è che tranne gli sbarchi, la sicurezza, quota 100 e altre misure importanti ma minori, la Lega (ma nemmeno il 5 Stelle) non ha mai toccato palla. Né sulla politica economica complessiva, né sulla politica estera, tanto meno nei rapporti con l’Ue. E dopo le europee si è messa anche peggio.

Bisognava però aspettare il voto di maggio per capire se davvero i consensi registrati dai sondaggi si sarebbero materializzati nelle urne. Parliamoci chiaro: nessun governo avrebbe retto a un così clamoroso ribaltamento dei rapporti di forza tra i due azionisti di maggioranza, nemmeno nella Prima Repubblica, dove interminabili crisi di governo si aprivano per pochi punti percentuali in più o in meno. Ma come abbiamo cercato di spiegare fin da subito, in questo caso non si trattava più nemmeno di trovare un nuovo equilibrio tra Lega e 5 Stelle. Nella dinamica già divenuta complicata tra i due alleati si era inserito un terzo partito che da tempo scaldava i motori, quello del Colle, per il quale Conte si è subito messo al lavoro smettendo la casacca di premier espressione del M5S. La vera partita era diventata Quirinale-Salvini. Dal boom della Lega era scattato il piano d’emergenza già condiviso tra Roma (Quirinale e Palazzo Chigi), Berlino e Parigi per isolarla in Italia e in Europa, dividere i due alleati procedendo alla normalizzazione del più malleabile dei due. Da lì in avanti è stato un gioco di specchi. Come ha raccontato “un autorevole esponente del Pd” citato da Verderami ieri sul Corriere, “è stata una sfida tra due scommesse: da una parte Salvini, che scommetteva non avremmo fatto in tempo a costruire una nuova maggioranza; dall’altra noi, che a quella maggioranza avevamo iniziato a lavorare, scommettendo a nostra volta che Salvini avrebbe aperto la crisi entro l’estate”.

E questo chiude anche il discorso sul presunto errore nei tempi: l’avesse aperta prima, avrebbero semplicemente avuto più tempo per costruire il Conte 2. Avendola aperta prima di Ferragosto, li ha messi alle strette proprio quando pensavano che ormai non l’avrebbe più aperta d’estate. Quanto alla partita per il Colle, con il suo 17 per cento in Parlamento la Lega ne sarebbe comunque rimasta esclusa, anche se il governo gialloverde fosse durato fino al 2022. L’unica chance di entrarvi è vincere elezioni anticipate nel 2020 o nel 2021. Il Conte 2 deve durare due anni pieni per arrivarci, ma un incidente può sempre capitare: più tardi avesse rotto, meno tempo Pd e 5 Stelle avrebbero dovuto trascorrere insieme e minore sarebbe stata la probabilità di incidenti letali per la legislatura.

A giugno e luglio Salvini aspetta di vedere quali margini di manovra gli restano dopo che il suo 34 per cento ha fatto scattare l’allarme rosso in quasi tutte le capitali europee. E vede gli spazi della Lega chiudersi con una velocità impressionante, il cordone sanitario stringersi. Mentre forse qualcuno si faceva distrarre dalle polemiche sui migranti e le ong, sui ragazzi bendati in caserma e quelli sulle moto d’acqua della polizia, qui il 13 giugno scrivevamo:

“I messaggi di Conte e Tria sono inequivocabili: il governo non andrà allo scontro con l’Ue, piuttosto si piegherà come ha fatto Tsipras. E tutta l’agenda economica sarà subordinata all’obiettivo di accordarsi con Bruxelles, al rispetto dei suoi vincoli. Altro che prima gli italiani. Addio flat tax. I due vicepremier potrebbero scoprire presto che stanno dando i loro voti a un Governo Monti 2.0. E la sfida a Salvini è già lanciata: o è così, o provi a chiedere nuove elezioni”.

La conferma arriva di lì a poco: lo sbandierato successo di aver scongiurato la procedura di infrazione è in realtà una resa. Il 2 luglio, come ha ben ricostruito Giuseppe Liturri per La Verità, Conte e Tria scrivono la lettera decisiva alla Commissione. Piccolo problema: di fatto scrivono già la legge di bilancio per il 2020, esautorando la loro stessa maggioranza parlamentare e chiudendo ogni margine di manovra per un qualsiasi progetto di taglio delle tasse, a cominciare dalla flat tax. Si impegnano infatti a ridurre ulteriormente il deficit strutturale (dal 2 all’1,8 per cento) e a evitare l’aumento delle aliquote Iva tagliando le tax expenditures, quindi aumentando la pressione fiscale. Alle proteste della Lega, Di Maio taglia corto: piena fiducia in Tria e Conte. Come poteva la Lega “impiccarsi” a una manovra del genere?

Il vento cambia all’indomani del dibattito in Senato e delle dimissioni di Conte. Il Sole 24 Ore titola: “Con esecutivo senza sovranisti possibile deficit aggiuntivo di 10 miliardi”. In un’intervista del 25 agosto Tria spiega che il deficit al 2,4 o 2,7 per cento “non è un tabù”. Su la Repubblica si parla addirittura di 3 per cento. Cos’è, abbiamo scherzato? Non c’è alcun cambio di scenario, il rallentamento della congiuntura internazionale e l’arresto della locomotiva tedesca sono fatti noti da mesi, che hanno già indotto molti analisti, economisti e politici a esprimersi sulla necessità di manovre di bilancio espansive. Dunque, in presenza degli stessi identici dati macroeconomici, come mai a luglio la Commissione pretende e ottiene da Conte e Tria l’1,8 di deficit per il 2020, mentre a fine agosto si può superare il 2 o addirittura arrivare fino al 3 per cento? Certo, sorge il dubbio che le regole si applichino ai nemici e siano invece interpretabili e flessibili per gli amici. Ma c’è il sospetto di una manovra ancora più inquietante, in triangolazione tra Bruxelles, Palazzo Chigi e Via XX Settembre. Che tutti fossero consapevoli che maggiore flessibilità sarebbe stata concessa, ma che in quel preciso momento non si potesse dire, che occorresse servirsi delle regole per mettere all’angolo Salvini e portarlo alla rottura.

Arriverà davvero la “ricompensa” per il governo amico di cui ha parlato nei giorni scorsi Oettinger? Dubitiamo che la ricompensa sarà davvero nei termini di una sostanziale flessibilità di bilancio, men che meno di “cambiare le regole”, anche se l’ipotesi può essere stata evocata in Europa a Conte, a Pd e 5 Stelle per indurli a formare il nuovo governo ed evitare il voto anticipato. L’Italia potrà forse spendere qualcosa in più grazie al minor costo del debito dovuto alla riduzione dello spread (i mercati scontano nuovi stimoli della Bce in arrivo, più che lo scampato pericolo Salvini), forse ottenere qualche zero virgola, ma nulla che possa davvero essere decisivo per rilanciare l’economia. Anche perché questo governo spenderebbe tutto in assistenzialismo piuttosto che in politiche pro-crescita. La ricompensa potrebbe esaurirsi nel posto di commissario agli affari economici e monetari (quello di Moscovici) per Gentiloni, ma sarebbe un’arma a doppio taglio: avrebbe tutti gli occhi puntati addosso, potrebbe davvero permettere al suo Paese di deviare in modo eclatante dagli obiettivi del Fiscal Compact? Più probabile che Gentiloni e Gualtieri siano stati messi lì per farceli raggiungere. In ogni caso, con i portafogli economici sia in Italia che in Europa il Pd non ha più alibi.

Ma torniamo a luglio. Nel frattempo, la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen viene eletta con i 14 voti decisivi degli eurodeputati 5 Stelle, che su indicazione di Conte la votano insieme a Pd e Forza Italia. Pensate a quale spallata allo status quo dell’Ue avrebbe potuto dare la coalizione gialloverde… Da quel giorno invece si parlerà di “coalizione Ursula”. In precedenza, l’elezione di Sassoli (Pd) alla presidenza del Parlamento europeo e di Castaldo (M5S) alla vicepresidenza. La Lega recepisce il segnale: il M5S è passato dall’altra parte della barricata.

Come ricorderete, sempre a luglio e ai primi di agosto, Salvini comincia a non avere più mani libere sugli sbarchi e il contrasto della tratta di esseri umani dalla Libia con la complicità delle ong, la politica su cui aveva costruito i suoi successi. Nemmeno il Viminale è un rifugio sicuro. Sempre più bastoni tra le ruote da Palazzo Chigi, Difesa e Trasporti, nonché sempre più provocazioni delle ong, evidentemente incoraggiate dalla sfida (emblematico il caso di Carola Rackete). “Ho lottato contro Matteo più di altri”, rivendica l’ex ministro della difesa Trenta sfogando la sua delusione per la mancata riconferma ed evocando una specie di gara a chi remasse di più contro il leader leghista. Per non parlare del dossier autonomia differenziata ancora nel cassetto, o del caso Savoini.

Insomma, altro che governo nelle sue mani e dettare l’agenda, Salvini si trovava letteralmente isolato, cordonato, in una morsa, con i suoi alleati già passati al nemico. Qualche settimana e avrebbe dovuto mettere la testa nel cappio della manovra, cominciando ad aprire gli occhi ai suoi elettori sulla realtà di un’impotenza di fatto al di là dei miracoli della sua comunicazione.

L’apertura della crisi, quindi, a nostro avviso, non è stata una mossa giusta o sbagliata, ma una mossa politicamente razionale rispetto all’obiettivo non di restare al governo pur non potendo decidere nulla, ma di arrivare a Palazzo Chigi, assumendosi un rischio calcolato (quello di non andare subito al voto, nonostante le rassicurazioni di Zingaretti), per giocarsi davvero la sua partita. Il Conte 2 allontana solo nel tempo le chance di Salvini, che più che i successi dei suoi avversari, o una nuova legge elettorale, deve temere la scure dei magistrati (che sarebbe potuta calare in qualsiasi momento anche restando al governo).

I suoi errori, quelli veri, sono stati principalmente due. Uno recuperabile: non ha saputo spiegare i motivi della crisi e la rincorsa a Di Maio ha dato la sensazione di un ripensamento e di uno stato confusionale. Ma soprattutto, e questo è un errore più grave, che avrebbe pesato anche in campagna elettorale, ha sottovalutato il contesto internazionale, l’importanza di avere alleati fuori dall’Italia.

Errore che non ha commesso invece il suo avversario principale in questa crisi, il premier Conte. Al primo Consiglio dei ministri, ieri, ancor prima di ricevere la fiducia, il nuovo governo ha esercitato la Golden Power su forniture straniere (Huawei e ZTE) di tecnologie 5G. La normativa applicata è quella di Monti del 2012, dal momento che il rafforzamento voluto dalla Lega è stato ostacolato dallo stesso Conte e dai 5 Stelle che hanno lasciato decadere il relativo decreto. Quindi è da capire se sia abbastanza per rispondere alle preoccupazioni americane, ma senz’altro un messaggio di grande attenzione. Che ci fornisce un’altra interpretazione del tweet di Trump a favore del reincarico di Giuseppi Conte. Non sappiamo se la decisione sia stata preannunciata a Trump al G7 di Biarritz, o se Conte abbia voluto ricambiare subito la cortesia del presidente Usa nei suoi confronti, ma è improbabile che non ci sia alcun collegamento tra i due fatti.

Il premier se l’è giocata molto bene, allineando tutte le capitali che contano per l’Italia (Washington compresa), non lasciando nulla al caso. Nonostante la distanza ideologica, Conte ha saputo instaurare un rapporto personale pragmatico e diretto con Trump, che il presidente apprezza. Ed è riuscito a evitare imbarazzanti intralci dalla Casa Bianca nei momenti decisivi per la nascita del nuovo governo.

Certo, non era facile non essendo a Palazzo Chigi o alla Farnesina, ma su questo fronte Salvini ha agito male, con sottovalutazione e approssimazione. Dubitiamo che abbia persino speso una telefonata per spiegare la crisi alla Casa Bianca. Non ha saputo sfruttare l’occasione della visita di giugno a Washington, gli incontri con il vicepresidente Pence e il segretario di stato Pompeo, pensando forse che bastasse una passerella per conquistarli. Sarebbe un errore dedurre dal tweet di Trump un endorsement al nuovo governo Pd-M5S, qualcosa di più che un attestato di stima per Conte, anche perché difficilmente può immaginare che uno stesso premier si ritrovi alla guida di due governi di segno politico opposto. Ma la sensazione – e le due cose non si escludono – è che Salvini abbia totalmente mancato la sponda Trump. Se nel momento decisivo il presidente Usa se ne esce con un tweet così, invece che con una bacchettata, vuol dire che qualcosa non ha funzionato e un canale diretto e solido con la Casa Bianca manca. Peggio: in assenza, in Italia, di un interlocutore stabile, affidabile e determinato a schierarsi senza tentennamenti dalla sua parte e a svolgere un ruolo da protagonista – e il dossier Libia lo conferma – Trump potrebbe aver deciso di lasciarci in mani francesi.

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