Facciamo subito una premessa, così evitiamo inutile polemiche: questo articolo ha un intento volutamente provocatorio e non auspicabile (almeno da parte di chi scrive). Nonostante tutto, proprio perché provocatorio, quanto segue vuole mettere in luce, ancora una volta, i danni che la sentenza (di primo grado) sulla Trattativa “Stato-Mafia” rischia di provocare sul sistema istituzionale.
Il punto è semplice: se ad essere condannato non è un reato materiale ma uno ideologico – ovvero la scelta di parlare con il Male – perché non processare anche, ad esempio, tutti coloro che, in questi anni, hanno scelto di scendere a patti con il regime iraniano?
Lo sappiamo tutti: tra la Sicilia e la Repubblica Islamica ci passano centinaia di chilometri. Eppure, se trattare con il Male significa porre una concreta “minaccia a corpo politico dello Stato”, questa accusa non può essere solamente circoscritta ad un solo soggetto, la Mafia. Per carità, quel soggetto ha compiuto attacchi diretti contro rappresentati istituzionali italiani, ma altri soggetti pongono alla sicurezza dello Stato minacce meno visibili, ma comunque pericolose.
Nel caso dell’Iran, ad esempio: il programma missilistico del regime rappresenta una diretta minaccia contro l’Europa; peggio, con la recente legge di bilancio, gli investimenti italiani in Iran rischiano di avere una diretta ricaduta sul budget dello Stato, rappresentando una minaccia alla tenuta (già pessima) dei conti pubblici e quindi sullla sicurezza dei cittadini.
Ricordiamo che, nell’ultima Legge di Bilancio, è stato inserito una articolo – il 151 – in cui si permette ad una agenzia pubblica (Invitalia) di trasformarsi in assicuratore di prima istanza degli investimenti italiani in Paesi ad alto rischio (leggasi Iran).
Il concetto di “alto rischio” è derivato direttamente dalla classificazione fatta dall’Agenzia semigovernativa FATF. Questa agenzia, classifica il regime iraniano come uno dei Paesi in cui maggiormente avviene il riciclaggio di denaro. Un riciclaggio fatto principalmente per finanziare il terrorismo internazionale e le numerose milizie paramilitari sciite presenti in Medio Oriente.
Terrorismo e milizie che, indirettamente, minacciano anche il territorio italiano, vuoi per il rischio (oggi basso) di concreti attacchi e/o vuoi per gli effetti che quanto accade in altre aree del mondo in cui l’Iran interferisce, hanno sull’Italia (effetti migratori compresi).
Il cerchio quindi si chiude nuovamente. Con il rischio paradossale che, nel caso si trovasse un giudice che ritenesse valide tutte queste forzate affermazioni, qualcuno si potrebbe davvero ritrovare condannato per aver “trattato con il Male”. Il risultato finale sarebbe così quello di porre le stesse relazioni tra Stati, sotto diretto controllo non del diritto internazionale, ma di quello nazionale, costringendo rappresentanti istutuzionali ad evitare di affrontare questioni scottanti, per evitare possibili condanne.
Concludendo, per dare un senso finale a questi giri di parole, è necessario stare molto attenti a condannare un reato di natura ideologica. Soprattutto quando – come sembra sinora (ma aspettiamo le motivazioni della Corte) – non pare esserci una “pistola fumante”, ovvero la prova concreta che chi ha trattato con la Mafia, lo ha fatto contro lo Stato (ovvero diventando lui stesso mafioso) e non per lo Stato.