Nel momento più difficile del ventennio putiniano, tra fermenti interni, difficoltà economiche e un crescente isolamento internazionale, la Russia trova una sponda nella sua tradizionale nemesi storica, la Germania. Una sponda non del tutto inattesa, a dire il vero, se si considera che poggia su un obiettivo comune per quanto motivato da premesse differenti, ovvero quello di contrastare l’egemonia americana nel continente europeo.
Riconosco che l’affermazione può sembrare un tanto paradossale, tenuto conto che la Russia è un rivale strategico degli Stati Uniti mentre la Germania è un tassello portante della loro sfera di influenza, ma che suonerà meno incongruente se si valutano le politiche concrete di Berlino, sempre più proiettata ad Est nella sua aspirazione a ritagliarsi un ruolo come soggetto geopolitico indipendente. La stipula dell’accordo commerciale con i cinesi (il CAI, EU-China Comprehensive Agreement, di cui venerdì scorso sono stati resi noti alcuni dettagli), fortemente voluto da Angela Merkel, l’annosa questione della finalizzazione del progetto Nord Stream 2 e la recente apertura all’utilizzo del vaccino Sputnik V sono le tre direttrici su cui si sviluppa attualmente la nuova Ostpolitik tedesca, destinate a mantenersi inalterate anche dopo la fine del mandato della cancelliera.
Del CAI parleremo in un’altra occasione, date le implicazioni a tutto campo della sua implementazione. Vorrei invece soffermarmi sul rapporto russo-tedesco, partendo però dalla prospettiva americana.
Possiamo raccontarci tutte le storie che vogliamo sul ritorno al multilateralismo e su una nuova era di cooperazione e armonia tra Europa e Stati Uniti sotto la gestione Biden. Rischieremmo, però, di non centrare il punto. Il tentativo della Germania di affermarsi come guida del continente e come polo di riferimento autonomo nei confronti del vicino e dell’estremo oriente entra in conflitto diretto con gli interessi vitali di Washington, che non dipendono dal colore dell’amministrazione di turno, essendo fattori essenziali della sua politica di superpotenza. Che le iniziative di Berlino vadano nella direzione di un ipotetico asse con Mosca aggiunge benzina al fuoco, rappresentando l’incubo geopolitico per eccellenza di qualsiasi strategia americana in Europa. Una delle ragioni fondamentali della mancata normalizzazione dei rapporti con la Russia in funzione anti-cinese (che sembrerebbe una manovra quasi ovvia prima facie) risiede proprio nella preoccupazione statunitense che, in questo modo, la Russia si senta autorizzata ad aprirsi un corridoio europeo, entrando da attore di peso nelle dinamiche continentali. La stabilità in Europa, in sostanza, rappresenta per gli americani la condizione essenziale per potersi concentrare su un altro fronte in questo momento decisivo, quello dell’Indo-Pacifico, dove l’obiettivo fondamentale è appunto contrastare l’espansione cinese. Va detto che il costituirsi di un ipotetico asse russo-tedesco è una prospettiva al momento piuttosto remota e dal punto di vista geopolitico quasi impensabile: prima di tutto perché la Germania è perfettamente cosciente che la sua difesa dipende totalmente dagli Stati Uniti; in secondo luogo perché Merkel è stata abile nel costruire un equilibrio di convenienza in grado di soddisfare le esigenze di un’industria tedesca interessata ai mercati orientali senza infastidire troppo l’alleato-protettore. Tuttavia, questo realismo opportunista, che il possibile successore Laschet non farà che confermare, è entrato oggettivamente in rotta di collisione con gli interessi americani. E gli americani hanno reagito.
Il caso del Nord Stream 2 è emblematico. Il gasdotto della Gazprom che attraversa il Mar Baltico è la rappresentazione grafica di quel che a Washington cercano a tutti i costi di evitare: una Russia piantata al centro dell’Europa senza passare dal via e una Germania come hub energetico dipendente dalle forniture russe. La seconda linea di collegamento (la prima è già in funzione da qualche anno) raddoppierebbe la capacità di rifornimento fino a 110 miliardi di metri cubi all’anno, aumentando considerevolmente la quota di mercato di Mosca attualmente attestata sul 40 per cento. Le conseguenze geopolitiche sono intuitive. Non solo il Nord Stream 2 priva l’Ucraina di una parte essenziale degli attuali profitti e della centralità come territorio di transito, ma taglia fuori completamente Polonia e Romania, ovvero gli stati-cuscinetto che separano l’area di influenza americana da quella russa. Le ambizioni della Polonia come futuro attore di rilievo nel mercato energetico continentale (nel 2022 scade il contratto di Varsavia con Gazprom) sono conosciute, così come l’opposizione di Berlino nei confronti di una diversificazione delle fonti energetiche promossa e gestita da Paesi dell’Est che gravitano nell’orbita statunitense. All’interesse geopolitico si aggiunge poi una considerazione di natura strettamente economica: gli Stati Uniti devono proteggere non solo la loro posizione strategica ma anche la loro produzione nazionale di gas naturale, in costante crescita e rivolta in gran parte proprio al mercato europeo.
I lavori del gasdotto sono praticamente fermi dal dicembre 2019, data della prima batteria di sanzioni dell’amministrazione Trump. Proprio nell’ultimo giorno del suo mandato, il 20 gennaio, il presidente uscente ha firmato nuove misure contro la nave russa Fortuna che stava lavorando su una sezione della struttura in acque tedesche. Secondo Gazprom, mancano solo 150 chilometri al completamento del progetto, un 6 per cento del totale, anche se il recente ritiro della copertura assicurativa da parte della svizzera Zürich e della norvegese DNV GL (certificazione) impone un ulteriore rallentamento. Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, ha prevedibilmente confermato che i piani di costruzione proseguono nonostante le sanzioni, consapevole che la volontà di Berlino va nella stessa direzione. Il caso Navalny ha sollevato ulteriori rimostranze da parte dei soci europei (giovedì il Parlamento comunitario ha votato a gran maggioranza una risoluzione contraria al progetto) e all’interno della stessa CDU, dove la linea governativa si scontra con posizioni marcatamente atlantiste (Röttgen): tuttavia gli interessi pratici sono come sempre destinati a prevalere in un Paese che fa politica attraverso (e grazie a) l’economia.
Vero è che Merkel, dopo l’audizione al Senato del nuovo segretario di Stato americano Antony Blinken che ha confermato la linea dura contro il Nord Stream 2, si è detta disposta a discutere con la nuova amministrazione i termini di un possibile accordo. Allo stesso tempo però i legali del governo tedesco stanno da tempo lavorando su una serie di meccanismi giuridici in grado di aggirare le sanzioni, che a Berlino considerano contrarie al diritto internazionale e viziate da extraterritoralità. E le dichiarazioni di accompagnamento non lasciano dubbi sulle reali intenzioni della cancelliera ormai a fine mandato: “L’Europa dovrà assumersi maggiori responsabilità, non solo militari ma anche diplomatiche. Noi, in Germania, siamo pronti e anche l’Unione europea lo è”.
Più che verso gli Stati Uniti sembra invece diretto proprio all’Unione europea l’ultimo affondo tedesco sul vaccino anti-Covid. Martedì scorso, nel corso di una conversazione telefonica, Merkel ha confermato a Putin la sua disponibilità a valutare la produzione dello Sputnik V all’interno dell’Ue, una volta approvato dalla European Medecines Agency (EMA). La cancelliera avrebbe offerto alla controparte i servizi del prestigioso Paul Erlich Institute, l’autorità federale nella ricerca biomedica, con l’obiettivo di implementare quanto prima l’uso del vaccino russo in territorio europeo. Si tratta, nuovamente, di una decisione dettata da pragmatismo con chiare ricadute politiche. Da una parte la cooperazione risponde ad un’esigenza mutua: aumentare il ventaglio di possibili fornitori del vaccino mentre Pfizer e Astrazeneca annunciano ritardi nella produzione e, allo stesso tempo, sopperire alle carenze produttive della Russia, attualmente incapace di garantire una diffusione di massa in ambito domestico. Dall’altra conferma l’aspirazione della Germania a muoversi autonomamente, perfino nel contesto dell’Unione europea, e offre ai russi un prezioso assist per migliorare la loro immagine e un canale di penetrazione nel mercato continentale: lo Sputnik V funziona, firmato Angela Merkel.
Non a caso l’amministratore delegato del fondo sovrano Russian Direct Investment Fund (RDIF), Kirill Dmitriev, ha immediatamente fatto sapere in conferenza stampa che “lo Sputnik V sarà presto uno dei vaccini più diffusi e accettati del mondo: la prossima settimana una prestigiosa rivista ‘peer-reviewed’ europea pubblicherà i risultati della fase 3 e sarà chiara a tutti la bontà del lavoro svolto”. I tempi di approvazione dell’EMA sono tutt’altro che agili ma il cammino è tracciato e a questo punto difficilmente la Germania rinuncerà al suo ennesimo strumento di “diversificazione”. Non è un mistero che Berlino sia insofferente di fronte ai tempi del sistema centralizzato di approvvigionamento e stia cercando di mettere pressione all’EMA e alle stesse istituzioni comunitarie per evitare di rimanere scoperta. Solo che in questo caso stiamo parlando del suo cortile di casa, del grande progetto europeo a guida tedesca, non di un’Ungheria o di una Serbia qualsiasi.
L’approccio pro-russo lancia un messaggio contraddittorio e rappresenta un chiaro segnale di sfiducia nei confronti dell’Unione e dei fornitori autorizzati. Lo strappo definitivo avverrebbe in caso di attivazione della procedura d’urgenza che permette agli Stati membri di concedere una licenza d’uso provvisoria in attesa del pronunciamento definitivo dell’EMA, sul modello ungherese. Ma, come per il Nord Stream 2, la Germania difficilmente si spingerà fino alle estreme conseguenze, continuando a muoversi come un equilibrista sospeso tra sponde opposte. Nel caso europeo può permetterselo, da buona padrona di casa. Con Washington la partita si complica e Berlino dovrà cercare di evitare a tutti i costi le cadute senza rete.