EconomiaEsteriQuotidiano

Nuova Via della Seta: ecco perché l’Italia sottovaluta implicazioni geopolitiche e rischi economici

Economia / Esteri / Quotidiano

Conte e Di Maio gli hanno dato solo l’ultima lucidata, ma l’accordo con la Cina viene da lontano (e dalla sinistra Dc). E la notizia è che il mutamento delle coordinate geopolitiche del nostro Paese è opera proprio di chi in teoria avrebbe dovuto difenderle dalle sbandate gialloverdi – il presidente Mattarella e la sua area politica…

Dal retroscena del solerte quirinalista del Corriere Marzio Breda abbiamo la econferma di quanto e come il presidente Mattarella abbia in sostanza blindato il memorandum di intesa con la Cina per la nuova Via della Seta e i suoi accordi collaterali. “Nessun allarme”, rassicura l’uomo del Colle spegnendo le polemiche, interne e internazionali, che ritiene “non giustificate”, eccessive e forse interessate. Insomma, “tanto rumore (e minacce) per nulla”. Il memorandum è “molto meno pregnante” di altri già siglati da Paesi europei, “le regole di ingaggio italiane molto più severe e stringenti” di quelle Ue e il 5G non ne fa parte, è tema “da approfondire” (in realtà, nella bozza un riferimento c’è: “telecomunicazioni” e “interoperabilità”). Anche Salvini “non ha avuto nulla da eccepire”, assicura Breda, durante la colazione di lavoro sul dossier. Le critiche? “Parecchi pregiudizi contro l’Italia, magari interessati”.

Questo accordo è un carro che viene da lontano, da troppo lontano perché potesse essere fermato, su cui il ministro Di Maio e il sottosegretario Geraci sono stati ben felici di saltare per una photo opportunity. Lo confermano la cinquantina di accordi economici (tra quelli rinnovati, ampliati e nuovi, 29 istituzionali, tra ministeri, e 21 tra aziende per lo più partecipate) che secondo Corriere e Sole24Ore verranno firmati il 22 e 23 marzo a Roma durante la blindatissima visita del presidente cinese Xi Jinping. Ci sono dentro tutti i big: Fincantieri, Ferrovie, Cdp, Terna, Eni, Snam, Italgas, Unicredit, Intesa San Paolo, oltre naturalmente ai nostri porti (Trieste e Genova, ma anche Palermo). Viene da lontano anche perché l’ingresso della Cina in asset strategici dell’Italia non è una notizia di oggi. Il colosso cinese China State Grid controlla già il 35 per cento di Cdp Reti, la società della Cassa Depositi e Prestiti che ha partecipazioni tra l’altro in Snam e Terna (rete gas ed elettrica), un’operazione perfezionata tra il 30 e il 31 luglio del 2014, quando l’ad di Cdp Giovanni Gorno Tempini e il presidente del colosso cinese Zhu Guangchao firmarono un’intesa a Palazzo Chigi alla presenza del premier Renzi, ricorda su La Verità Daniele Capezzone, che all’epoca da parlamentare presentò diverse interrogazioni: “Stiamo parlando della più grande utility al mondo, un colosso – allora – da 298 miliardi di dollari di ricavi, impegnato nella costruzione e nella gestione della rete energetica operante sull’88 per cento del territorio cinese, oltre che strumento per aggressive strategie di proiezione internazionale”.

A questo punto, nonostante il goffo lavorio di maquillage tra Quirinale e Palazzo Chigi, il memorandum di intesa per la BRI assume esattamente il significato simbolico e di cornice politica che irrita Washington. A preoccupare i nostri alleati non è il business, che si è sempre fatto, ma la legittimazione che aderendo al BRI l’Italia offre al regime di Pechino e al suo disegno geopolitico, antagonista rispetto a quello Usa, nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo, per di più proprio nella fase cruciale del negoziato commerciale.

E stavolta non è farina del sacco gialloverde. Basta guardare ai nomi dei governi e delle personalità politiche che dal 2013, da quando è stata annunciata da Pechino l’iniziativa della nuova Via della Seta, stanno lavorando a questo risultato (Letta, Renzi, Gentiloni, Mattarella, Prodi, Bassanini) e ai grandi interessi coinvolti, per lo più grandi aziende di stato, per comprendere che è il centrosinistra politico ed economico (o meglio, la sinistra Dc) che sta spingendo l’Italia tra le braccia della Cina, in un momento in cui, a differenza di qualche anno fa, come spiegato ieri su Atlantico, ciò rischia di provocare uno grave strappo con gli Stati Uniti. E se qualcuno vedeva nel presidente Mattarella il custode e garante delle coordinate di politica estera del nostro Paese rispetto alle sbandate del governo sovranista e populista, la notizia è che la maggiore strambata geopolitica che l’Italia abbia conosciuto dal Dopoguerra arriva proprio da lui e dalla sua area politica – che ne sia o meno consapevole. Non è il Quirinale ad aver offerto “copertura” al governo sull’accordo con Pechino, sono piuttosto i gialloverdi le foglie di fico per un’operazione concepita e costruita prima di loro, a cui hanno dato solo la lucidata finale.

Si obietta: ma inglesi, francesi e tedeschi hanno già chiuso consistenti affari. C’è del vero: la China Merchants controlla quasi la metà di una società francese che gestisce 15 importanti scali container, quasi tutti in Europa, di cui uno a Marsiglia e un altro ad Anversa, e nessuno ha fiatato. La Germania è già di fatto nella nuova Via della Seta con il terminale ferroviario di Duisburg – dove però, ancora oggi, ogni due treni che arrivano dalla Cina, ne riparte uno solo. Eppure, non appare un argomento a favore convincente, quello che Breda attribuisce al Quirinale, il “così fan tutti”. Primo, perché i loro affari hanno saputo chiuderli prima che il vento cambiasse tra Washington e Pechino. Secondo, perché non sono gli “affari”, ma è il disegno geopolitico che si sposa, a preoccupare gli Usa. Terzo, perché comunque l’amministrazione Trump non è affatto tenera con “gli altri”: gli avvertimenti che hanno indirizzato a noi valgono per tutti. I Paesi Nato che non escluderanno Huawei e ZTE dal 5G rischiano di perdere la possibilità di integrare le proprie forze armate con quelle americane e la condivisione di informazioni di intelligence. Ovvio che i Paesi, come Italia e Germania, che ospitano un maggior numero di basi, destino maggiori preoccupazioni e quindi pressioni. E la pressione in particolare su Berlino, per le politiche commerciali, il contributo alla Nato, il Nord Stream 2 con la Russia e, ora, anche sul dossier Huawei-5G è già fortissima. Quarto, perché se “gli altri” decidono di voltare le spalle all’America per la Cina, non è detto che ciò sia anche nei nostri interessi.

Governo e Quirinale stanno a nostro avviso commettendo un grave errore di sottovalutazione sia delle implicazioni geopolitiche che dei rischi economici. Ma d’altra parte, nella sua pur breve storia unitaria, con l’eccezione di Cavour l’Italia ha quasi sempre sbagliato le sue alleanze.

Qui si tratta di mettere a rischio una certezza di export verso gli Stati Uniti, 40 miliardi, in crescita del 10 per cento (2017), per una scommessa di export, dal momento che non va dimenticato, nonostante da anni si parli delle grandi opportunità del mercato cinese, che il valore delle nostre esportazioni in Cina è di circa 13 miliardi. Abbiamo un forte surplus commerciale con gli Usa, mentre un netto deficit con Pechino. La Germania, con un export di oltre 70 miliardi, è l’unico Paese Ue che ha un interscambio commerciale in equilibrio con la Cina.

Per carità, negli accordi ci sono interessanti potenzialità per le nostre big di stato, ma nulla che autorizzi a sostenere, come dice Di Maio, che si tratti di un accordo con il quale “per la prima volta invece di far solo venire prodotti cinesi in Italia, cominciamo a mandare i nostri prodotti in Cina, il nostro made in Italy“. Al di là degli specifici accordi che verranno siglati, infatti, resta il tema della reciprocità degli scambi e delle condizioni generali applicate a chi non ha lo stato come padrino. A parole Pechino ha ripetutamente preso impegni, ma i fatti ci dicono che quella “strada commerciale” è ancora a senso unico, per gli stessi problemi che l’amministrazione Trump sta cercando di superare con i durissimi negoziati in corso e a colpi di dazi da centinaia di miliardi di dollari: scarsa apertura del mercato cinese alle imprese Usa e Ue, sussidi a molti settori della loro economia, trasferimenti obbligati di tecnologia e furto di proprietà intellettuale. È verosimile che l’Italia da sola, aderendo alla BRI, riesca laddove l’approccio morbido Ue ha fallito e quello hard dell’America di Trump fatica a ottenere risultati? Garantirà, per esempio, alle nostre aziende di poter investire in Cina senza l’obbligo di un socio di maggioranza cinese? Non è più probabile, visti i precedenti, che la Cina sia interessata ad aumentare la capacità delle nostre infrastrutture e a controllarle per meglio inondare l’Europa delle sue merci e continuare il suo shopping compulsivo di aziende europee?

Ciò che sta accadendo con riguardo agli investimenti diretti esteri nella Ue emerge con chiarezza dal rapporto diffuso mercoledì dalla Commissione europea, che registra una crescita continua della proprietà straniera di società europee in settori chiave. Ma a destare preoccupazione sono la provenienza degli acquirenti e il trend. Più del 35 per cento del totale degli asset Ue appartiene a compagnie straniere. Per l’80 per cento si tratta di investitori statunitensi, canadesi, svizzeri, norvegesi, giapponesi e australiani. Ma negli ultimi dieci anni sono cresciuti rapidamente gli investimenti di compagnie controllate da stati esteri. In particolare, dal 2007 al 2017, quelle controllate da Cina, Russia ed Emirati Arabi Uniti hanno triplicato le loro acquisizioni, soprattutto in settori chiave come raffinazione, elettronica, aeronautica, macchinari specializzati. Interessante il grafico che mostra la distribuzione per Paesi di origine. In dieci anni (2007-2016), le società controllate da compagnie americane e canadesi sono scese dal 41,9 al 29 per cento, quelle controllate da compagnie di Paesi EFTA (Norvegia, Svizzera, Liechtenstein, Islanda) dal 16,4 al 12,3 per cento, mentre di segno inverso è il trend delle acquisizioni cinesi (dal 2,5 al 9,5 per cento) e russe (dallo 0,8 al 4 per cento).

Almeno le aziende italiane potranno partecipare ai progetti di potenziamento infrastrutturale della Via della Seta? In teoria sì. A pari condizioni, ci viene assicurato, secondo regole e standard di trasparenza Ue. Piccolo problema: quelle regole hanno un bug non risolto dal regolamento sul controllo degli investimenti esteri approvato la scorsa settimana dal Consiglio Ue. La novità è che la Commissione potrà esprimere un parere ostativo all’acquisizione di una società europea da parte di un fondo o una compagnia di uno stato terzo, se ravvisa il rischio di una lesione degli interessi fondamentali dell’Ue. Tuttavia, come spiega l’avvocato Davide Maresca a Radio Radicale, oggi “se una compagnia a controllo pubblico di un Paese Ue vuole investire in una infrastruttura, deve rispettare il cosiddetto market economy investor principle, il criterio dell’investitore privato in una economia di mercato, cioè non è consentito a una società controllata da uno stato membro investire a condizioni inferiori a quelle di mercato”, che prevedano un rendimento inferiore a quello che accetterebbe un privato o addirittura negativo. “Le società controllate da fondi sovrani di stati terzi, extra-Ue, non sono invece vincolate a questo criterio, sono libere di acquisire partecipazioni di riferimento pur senza una giustificazione economica, per finalità politiche (come la Via della Seta, per esempio)”. Ed è chiaro che società di stato cinesi, o sussidiate da Pechino, possono permettersi di investire anche in perdita per perseguire gli obiettivi politici del regime, mettendo fuori gioco le nostre.

“Se siedi a un tavolo, puoi esserci come commensale o come pietanza”, è l’adagio ricordato ieri da Giulio Tremonti.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde