Le sconcertanti e profondamente avvilenti immagini che ci sono arrivate, masticate e sputate fuori, dal ventre dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere sembrano aver riaperto una ferita, per lungo tempo sopita e quasi cicatrizzata, in una opinione pubblica letargica, ormai imbambolata dopo un anno e mezzo di totalitaria narrazione sulla pandemia; e alla mente, mentre negli occhi scorrevano quei frame di pestaggi, abusi e vessazioni posti in essere dai poliziotti penitenziari in danno dei reclusi, ‘colpevoli’ di aver inscenato una protesta, sono tornate potenti altre immagini, quelle di Bolzaneto, durante i caldissimi giorni del G8 di Genova del 2001, e quelle di Abu Ghraib.
Il dibattito, al netto delle solite, piccine partigianerie del ceto politico, sempre più invischiato in sotto-culture e in espressioni da manicheismo da partita di calcio, ha investito di nuovo l’istituzione carcere, la distanza siderale tra il modello di pena delineato dal nostro ordinamento costituzionale e la pietosa realtà dei fatti, la inadeguatezza della gestione complessiva degli istituti penitenziari a partire proprio dagli organi di vertice politico, la scarsità di risorse e di personale, la vexata quaestio del sovraffollamento, ragione questa che è già costata all’Italia la reprimenda, e il relativo onere economico, delle sanzioni dell’Unione europea, a partire dalla ormai celebre sentenza CEDU ‘Torreggiani’ del 2013.
Come spesso avviene in queste occasioni, la riflessione complessiva tende ad elevarsi in un iper-uranio teorico che finisce con l’obliare alcuni elementi di assoluta essenzialità, primo tra i quali la natura del carcere stesso.
E difatti, sentiamo e sentiremo ripetere la notissima, e spesso abusata, frase sulle carceri come unità di misura del grado di civiltà di un popolo: a dire il vero, ho sempre ritenuto che l’espressione, certamente storicamente fondata quando venne formulata, dovrebbe essere superata adottando una prospettiva radicalmente diversa.
Il carcere non è una unità di misura, ma l’approdo irrinunciabile a cui tende qualunque Stato.
Sin dagli studi del sociologo canadese Erving Goffman che ai manicomi, alle caserme e alle istituzioni carcerarie ha dedicato il suo fondamentale saggio “Asylums”, parlando per la prima volta organicamente di ‘istituzione totale’, passando chiaramente per le riflessioni del Foucault di “Nascita della clinica” e di “Sorvegliare e punire”, l’istituzione totale, nel caso che ci riguarda il carcere, si atteggia quale elemento perfezionato di identificazione tra i dispositivi di controllo esperiti dallo Stato nel suo complesso e la dinamica di punizione.
Nell’istituzione totale non c’è solo espiazione; non c’è solo l’arida separazione fisica del corpo del recluso, come quello del malato nell’ospedale, ma c’è anche una asfissiante cappa burocratica, di iper-regolazione e di controllo verticistico che schiude petali carnicini di dominio e di sottomissione spinti entrambi ai loro estremi.
Ogni corpo recluso, ristretto, si atteggia a monade incapsulata in un micro-spazio presidiato da una logica centralizzata, da una razionalità e da un potere che tutto sottomettono e tutto controllano: nello spazio quasi metafisico del carcere la violenza è strutturale, ontologica, e non soltanto fisica, ma quasi spirituale, comunicativa, interstiziale.
Si insinua nel corpo, e nella mente, operando una plastica regressione del ristretto ad uno stadio infantile: il linguaggio del carcere è povero, destrutturato, governato dalle chiavi interprative della razionalità centrale, quella della istituzione, la quale assegna patenti di autorizzazione, di concessione, a seguito della ricezione di istanze che il gergo carcerario rubrica a ‘domandine’.
Il detenuto ridotto a infante sublima la forma assoluta del controllo; esattamente come la potestà genitoriale si esplica sul bambino incapace di determinare pienamente le sue scelte, l’istituzione totale opera la complessiva ritenzione delle scelte autodeterminative del singolo soggetto e lo rende, fagocitandolo e plasmandolo, meno che un mero ingranaggio.
Ma l’istituzione totale, per le sue caratteristiche intrinseche, non risparmia nessuno: la sua logica violenta, trasudando dalle pareti e dalla vita quotidiana rigidamente organizzata, dagli spostamenti contingentati e iper-normati, dalla gerarchizzazione, dalla limitazione delle comunicazioni e delle informazioni circolanti, colpisce il detenuto, ma anche il personale carcerario.
L’unica reale differenza, in termini di conseguenze psichiche, tra un detenuto e una guardia carceraria è che la guardia a fine giornata può tornare a casa, e spezzare brevemente l’apnea che lo avvolge nel suo quotidiano lavorativo; ma in realtà, il poliziotto penitenziario tende a portare l’istituzione totale con sé, fuori da quelle mura, avendo introiettato, dopo mesi, anni, decenni, di onorata carriera nel mondo artificiale e minuziosamente regolato e limitato del carcere, quelle dinamiche di controllo sociale e appunto di violenza.
Una violenza che rimane latente, come una brace accesa, a scaldarsi, pronta ad esplodere e a deflagrare quando innescata da qualche specifico fattore.
Ma c’è un punto ulteriore: l’investitura formale e sostanziale di un potere così forte, penetrante, quasi demiurgico, quale è quello di decidere della e sulla quotidianità del ristretto, nel senso di agevolare la sua permanenza tra le sbarre o al contrario renderla un inferno, finisce col fare del poliziotto penitenziario un soggetto incardinato fisiologicamente nella macchina carceraria.
Viene sdilinquito il portato personale, umano, del singolo agente, mediante una feroce opera di standardizzazione, gli viene impresso un linguaggio unico, altro rispetto a quello parlato e compreso fuori dal perimetro carcerario.
In questo senso, il poliziotto penitenziario è vittima della violenza del carcere nella stessa misura in cui lo è il detenuto, perché è proprio il carcere a produrre in via continuativa e reiterata un flusso continuo di violenza.
Lo ha dimostrato P. Zimbardo, nel suo celebre e famigerato esperimento carcerario dell’Università di Stanford; autorità, potere e ristrettezza fisica ingenerano la polarizzazione totale, facendo rifluire la punizione ad una dimensione quasi sacrale di nullificazione dell’esistente.
E c’è poi un altro aspetto che è in fondo saliente se vogliamo considerare l’istituzione totale non un mero incidente di percorso, una aberrazione orrenda ma necessitata e funzionale nello sviluppo della civiltà umana abbarbicatasi nella dimensione statale, quanto piuttosto lo sbocco ‘naturale’ di un approccio pubblico e statale alla gestione del fattore umano.
Mi riferisco alla comunicazione. L’istituzione totale, lo insegna Goffman, e in Italia si segnalano i pregevoli studi in tema di Carlo Serra, non solo esercita il monopolio della coazione e della violenza legittima, esattamente come fuori fa lo Stato, ma impone una sua propria, unica, totalizzante comunicazione: i paradigmi sono determinati dal centro, e non sono ammesse vulgate alternative.
D’altronde, ce lo ricorda in maniera nitida Serra, molto spesso i detenuti per sfuggire a questo aspetto sono costretti a ricorrere a tentativi di variazione sul tema, forme cruente di comunicazione non verbale come l’automutilazione.
E proprio la comunicazione è imperativo normativo, in questa prospettiva.
In carcere il diritto, la regola, la norma rappresentano infatti la legittimazione non della salvezza del detenuto, né la garanzia della sua risocializzazione, ma la gabbia teorica dentro cui formulare l’ipotesi complessiva di società violenta, in quanto violentemente formata e vissuta: la regola è quindi abuso ontologico.
Come ricorda l’incipit di quello straordinario affresco che non casualmente Franco Volpi inserì nel cuore del nichilismo europeo, “Le 120 Giornate di Sodoma” di Sade, ogni insieme sociale che della ristrettezza faccia sua cifra esistenziale deve darsi un corpo di regole che non saranno più, e forse non sono mai davvero state, elemento di garanzia, quanto certificazione dell’uso legittimo della violenza; e se in quelle pagine, i Libertini scrupolosamente dettano le loro regole, avvinte dal flusso di comunicazione iper-centralizzato nelle bocche delle narratrici, nel carcere ogni regola tende a biforcarsi, essendo prima elemento teorico di garanzia e poi, nella pratica, funzione della trasgressione da punire, ogni volta che la regola sia stata violata o semplicemente non ossequiata.
Lo Stato, ogni Stato, ogni istituzione, è un frammento organizzato di violenza; e lo intuì con sconvolgente lucidità il Roland Barthes di “Sade, Fourier, Loyola” che lesse appunto in combinato il pensiero di questi tre giganti, in apparenza diversi, ma costruttori di mondi in cui violenza e organizzazione sono unite tra loro in maniera salda e inestricabile.
La regola esiste quindi, nel carcere, solo come funzione di esercizio della punizione che essa porta con sé. Non è funzionale al mantenimento della pace sociale, in quanto il sociale non esiste: c’è solo la istituzione nella sua totalità, con i suoi atomi, i suoi granelli di carne.
C’è del vero, tremendo, forse insostenibile, in quella frase di Jean Genet che ricordando i bravi borghesi applaudire convinti le guardie mentre esse pestavano i detenuti incolonnati e diretti verso il carcere, ricorda come poi quegli stessi bravi borghesi siano divenuti nomi su placche commemorative, inghiottiti dalla tenebra e dalla nebbia di quello spettacolo tremendo di morte che furono Belzec, Majdanek e gli altri campi di sterminio: perché la violenza legittima sempre sé stessa, è un moto perenne che si nutre della sua permanenza e dei suoi strumenti, e semplicemente oggi tocca all’uno e domani all’altro, magari a chi era prima carnefice o divertito spettatore o probo cittadino.
In questo senso, l’istituzione totale carceraria non è più solo mera metafora di ciò che è lo Stato, ma conseguenza inevitabile sul lungo periodo proprio dello Stato e delle sue logiche regolatorie, di concentrazione, di monopolio.
Abbiamo visto e detto: esercizio monopolistico della violenza, tendenza alla iper-regolazione e alla burocratizzazione capillare, ritenzione della comunicazione, forma penetrante di sostituzione degli elementi più prettamente individuali e personali con una omologazione totalizzante, pianificazione economica centralizzata, vita meramente sussidiata e standardizzata.
Nelle carceri non si saltella più in tondo, all’ombra del cortile interno laddove il sole è solo una illusione vagamente promessa, ma il significante più profondo e crudo di quel rituale imposto non è mai davvero venuto meno.
Le nostre città, ancor prima della pandemia ma ora in maniera ancor più scoperta ed evidente, sono campi di morte afflitti da grigiore: l’architettura contemporanea è sempre più simile a quella consistenza anodina e afflittiva dei bunker, delle casematte e delle carceri appunto, il nostro linguaggio è sempre più burocratizzato e povero, imposto dal centro.
L’economia statale vuole sussidiare, aggredire la proprietà privata, spogliandocene come avviene sulla soglia di ingresso di ogni carcere dove si è tenuti a lasciare ogni effetto personale e con questo gesto si finisce per spogliarsi della propria umanità.
Lo Stato, come il carcere, spersonalizza l’individuo e punisce la concorrenza e la competizione. Aggredisce, proprio perché non concepisce come spazio di possibilità la libertà.
Nel carcere, esattamente come nello Stato contemporaneo, si regola, si pianifica, si centralizza in maniera feroce, escludente: ogni atto è imposto, mai davvero accettato o negoziato, la violenza è il rumore di fondo della esistenza, in qualunque ambito, l’economia rifluisce alla dimensione della mera sussistenza, si viene spogliati di tutto e si deve dipendere, funzionalmente, esistenzialmente, mentalmente, dalla mano ‘gentile’ del potere centrale.
Lo Stato, esattamente come il carcere, ha la necessità di controllare. In maniera piena. Fa rifluire alla minorità i suoi ‘cittadini’, divenuti nel volgere di poco tempo sudditi. Non è lo Stato a tentare di entrare nel carcere per renderlo ‘umano’ e conforme a Costituzione: è il carcere a invadere, colonizzare e permeare l’ossatura dello Stato, mediante una mimesi perfetta e totale. Rendendoci tutti prigionieri di scelte su cui non abbiamo alcun controllo reale.