Politici di tutto il mondo! Volete che gli elettori vi votino alle prossime elezioni? Bene. Non chiedetevi se vi percepiranno come un buon leader o come un uomo onesto e capace. La domanda che gli elettori si fanno per capire chi votare nel segreto dell’urna è: does he care about people like me? Si preoccupa di gente come me?
Per anni Henry Olsen, politologo di rigorosa militanza conservatrice, ha cercato di scuotere il Partito Repubblicano dalle fondamenta, spiegando in modo semplice e coinvolgente perché il GOP non era più un prodotto vincente nel mercato elettorale.
E se la domanda di cui sopra non sarebbe male se se la ponessero anche molti dei candidati alle elezioni italiane del 4 marzo, Olsen parte da questa question per spiegare nel suo ultimo libro The Working Class Republican. Ronald Reagan and the Return of Blue Collar Conservatism il successo dell’ultimo repubblicano capace di parlare a tutta la nazione americana: Ronald Reagan.
Due, le conclusioni che fanno sobbalzare sia gli hard-liners repubblicani, sia gli hard-liners liberal. La prima: Reagan era, in tutto e per tutto, un erede del New Deal rooseveltiano. La seconda: il Reagan della nostra epoca? Donald Trump, ovvio.
La storia del Great Communicator fu infatti quella di un Democratico che vide in Roosevelt il Presidente capace di realizzare il sogno americano, l’uomo che dopo la crisi del ’29 scommise sulle persone e sulla loro realizzazione a partire dagli ultimi, i Forgotten Ones, indicati da Trump nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca.
Reagan, il Presidente più rivoluzionario della storia americana del ‘900, non fu poi così distante da Roosevelt come i libertarians del GOP – eredi di Barry Goldwater e del suo best-seller The conscience of a Conservative, La coscienza di un conservatore – sostennero per anni. Alcuni, come Ted Cruz lo sostengono ancora, per la verità.
The Working Class Republican. Ronald Reagan and the Return of Blue Collar Conservatism
di Henry Olsen
Broadside
pag 368 – 21,46 Euro
Anch’egli credeva che a ogni uomo doveva essere garantita una vita degna di tale nome e che lo Stato doveva intervenire per aiutare chi non ce la faceva da solo con i propri mezzi. Negli anni ’60 però avvenne la grande conversione: il Reagan democratico e rooseveltiano post New Deal rimase deluso dal nuovo corso Democratico che estendeva lo stato sociale ben oltre i confini dei poveri e degli indifesi, diventando un’idrovora che succhiava il sangue dei contribuenti e ponendo le basi per quella cultura dei diritti senza corrispettivi doveri che sfociò nella Great Society di Lyndon Johnson, nella contestazione studentesca, e nella fallimentare presidenza di Jimmy Carter. Per spiegare il suo passaggio ai Repubblicani Reagan disse: “Non ho mai lasciato il partito Democratico: è il partito Democratico che ha lasciato me”.
Reagan si dimostrò così sempre in sintonia con la Middle America, l’americano medio di cui incarnava pregi e difetti, e con i blue-collar dell’America più industrializzata e profonda, quella che nel 1984 votò in massa per la sua rielezione, lasciando allo sfidante Michael Dukakis solo 13 grandi elettori.
Ma è nell’explicit del libro che Olsen lancia la sua tesi più controversa: il Grand Old Party ha trovato l’erede di Reagan, l’uomo capace di parlare a tutta la nazione, in un outsider della politica, che ha scalato un partito ormai votato al declino: si tratta di Donald Trump, l’unico a cogliere lo spirito di frustrazione degli americani verso le élites di Washington – e non solo – e a promettere un futuro degno di essere vissuto ai Forgotten Men, gli uomini dimenticati in nome del progresso.
L’America First di Trump, nella sua dizione migliore non è altro che questo secondo l’autore del libro: un tentativo di unire un Paese vastissimo nel culto di un rinnovato sogno americano, mettendo, prima di tutto, i cittadini americani al centro di ogni processo politico. “Trump – conclude Olsen – è il candidato ideale per re-reaganizzare davvero il partito Repubblicano”.