Bisogna spendere non per tenere chiusa l’Italia, bensì per provare, in modo razionale, a riaprirla… Ogni mese in più che aspettiamo ci renderà più poveri, più deboli, meno in grado di provare a ripartire
Non c’è dubbio che da alcune settimane gli italiani abbiano compreso la pericolosità del Coronavirus, in termini di gravità intrinseca della malattia che si può sviluppare e di pressione sul sistema sanitario. Non stupisce in quanto, in queste settimane, la politica, le istituzioni e l’informazione sono state unanimi nel trasmettere con ogni mezzo, e con un’intensità senza precedenti, il senso dell’emergenza e dell’urgenza.
Non sembra, tuttavia, che i cittadini abbiano sviluppato la medesima comprensione delle conseguenze economiche del Covid-19 che potrebbero assomigliare più a quelle di una guerra che a quelle di una normale crisi.
Questo è, in parte significativa, da addebitarsi alla narrazione dei nostri politici secondo cui lo Stato, eventualmente con il supporto dell’Unione europea, dispone di tutti gli strumenti per governare l’emergenza. Il segnale mandato al Paese è che basti un’iniezione di denaro pubblico opportunamente grande per mantenere in ibernazione il sistema Italia per tutto il tempo necessario e poi consentirgli di ripartire il giorno che il virus sarà sconfitto.
In questo contesto, non stupisce che sia opinione generale che prospettare riaperture finché c’è ancora da combattere la battaglia sanitaria sia irresponsabile, se non addirittura inumano.
È così che l’intero Paese si è sempre più infervorato sull’affermazione del “primato della salute” sui “biechi interessi dell’economia”, senza realizzare che il livello straordinario di tutela della salute a cui è abituata la società moderna è il risultato proprio della prosperità economica.
Di pari passo sono andati la denigrazione e il linciaggio morale di quei leader stranieri – gli “innominabili” Donald Trump, Boris Johnson e Jair Bolsonaro in testa – che hanno anche solo osato porre anche la questione della praticabilità economica sul piatto della bilancia.
Eppure, lo Stato non ha nessuna capacità di moltiplicare pani e pesci. I soldi che metterà generosamente in campo sono semplicemente soldi che, per altri versi, sottrarrà all’economia, attaccando in modo diretto (tasse) o indiretto (inflazione monetaria) i risparmi degli italiani.
Per dirla come la direbbe Winston Churchill, una nazione che cerchi di compensare attraverso manovre monetarie o attraverso la spesa pubblica il fatto di essersi fermata è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico.
Malgrado questo, la parola d’ordine attuale è “prima sconfiggere il Coronavirus”. Cosa vuol dire “sconfiggerlo” però?
Ora, la strategia ufficiale prefigurata dal nostro e da altri governi è stata l’implementazione di drastiche politiche di “distanziamento sociale” volte a “sopprimere” il virus e a consentire un ritorno alla normalità in un tempo genericamente prospettato ai cittadini come relativamente breve.
In realtà, ci sono ormai significative evidenze che lo scenario reale si annunci diverso. Nei fatti, le restrizioni messe in atto sono state in grado di stabilizzare la progressione dei contagi, ma non ad avviare una qualche significativa riduzione. È molto meno di quello che i responsabili della gestione dell’emergenza avevano fatto sperare.
Per di più, i numeri ufficiali, tuttavia, possono rappresentare solo un’indicazione di tendenza nel momento in cui lo stesso capo della Protezione civile Angelo Borrelli afferma che il numero probabile di contagi nel Paese è nell’ordine di dieci volte quelli accertati – stima che è coerente con le conclusioni a cui si sta giungendo in altri Paesi.
In queste condizioni, è molto difficile ritenere che l’evoluzione della situazione possa consentire di decretare in alcun momento una “vittoria” sul Coronavirus. Del resto, quando anche i numeri delle conferenze stampa divenissero più confortanti, non ci potrebbe essere nessuna garanzia sul numero di asintomatici portatori del Covid-19.
Come autorevoli studi hanno mostrato, non è possibile nessuna uscita definitiva dalle misure sulla base di criteri di avvenuta soppressione e la durata delle misure restrittive dovrebbe estendersi ben più a lungo di quanto sopportabile da qualsiasi economia.
In questo contesto strategie alternative al lockdown, finora liquidate da molti come cinico e spregiudicato economicismo, torneranno gradualmente in campo, opportunamente “rimasticate”, “purificate” e “nobilitate” dalla politica e dai media mainstream. Non è caso che già possiamo registrare una prima posizione di Matteo Renzi a favore della “riapertura”.
Ma se la situazione è questa, che cosa si può fare effettivamente per trovare una via di uscita?
Sicuramente siamo in una fase in cui si rende inevitabile un significativo sforzo di spesa pubblica.
Tuttavia, la vera questione è che gli obiettivi della spesa non dovrebbero essere – come invece prefigura il governo Conte – il finanziamento di un lungo lockdown e il tentativo di rimediare, poi, alle sue conseguenze devastanti sull’economia.
Al contrario, l’intervento dello Stato oggi, dovrebbe essere indirizzato a rendere possibile un’alternativa sostenibile al lockdown.
È sul potenziamento rapido del sistema sanitario che bisogna mettere soldi, accrescendo il più possibile la disponibilità di posti di terapia aggiuntiva e mobilitando personale medico aggiuntivo.
Serve, naturalmente, approvvigionare in grande quantità dispositivi di protezione individuale, per il personale medico in primis e per tutta la popolazione in secundis.
Naturalmente questo implicherà finanziare la riconversione di molte aziende verso la produzione emergenziale di quanto necessario.
Servono tamponi a tappeto che consentano di isolare i contagiati, ma anche test sugli anticorpi che permettano di individuare chi è già guarito, magari senza mai aver sviluppato sintomi – e quindi può tornare alla “vita precedente” avendo conseguito l’immunità.
Su tutte queste spese non si dovrebbe lesinare, perché qualunque somma si spenda in respiratori, mascherine e test sarà comunque nettamente meno di quanto un solo mese in più di “chiusura” costerebbe al Paese tutto – e anche alle casse dello Stato in termini di mancati introiti fiscali e di sussidi da erogare a chi non può lavorare o perde il lavoro.
In altre parole, il concetto è che bisogna spendere non per tenere chiusa l’Italia, bensì per provare, in modo razionale, a riaprirla.
Se non esiste possibilità di sopprimere il virus e se non si può pensare di prolungare il lockdown per uno o due anni, fino alla disponibilità universale di un vaccino, l’unica possibilità è quella di trovare il modo di convivere con il Covid-19.
Bisogna individuare le condizioni di una “nuova normalità” che possa essere sostenibile per un lungo periodo – una normalità un po’ rallentata naturalmente, in cui si consolidi il ricorso a tutte le appropriate precauzioni, ma in cui si ricominci a vivere, a lavorare, a uscire e, entro limiti ragionevoli, anche a socializzare.
Dovrebbero riaprire tutte le aziende e dovrebbero riaprire tutti i negozi.
Come da alcune parti è stato proposto, potrebbe essere implementata una normalizzazione per fasce di età, ad esempio prevedendo l’immediato rientro al lavoro di coloro che abbiano meno di 55 anni, salvo portatori di particolari patologie.
Non è detto, naturalmente, che si debba riaprire tutto, anche perché l’obiettivo di contenere la curva dei contagi dovrebbe comunque essere conseguito. Alcune chiusure potrebbero rimanere in atto sulla base di valutazioni costo-beneficio.
Ad esempio, potrebbe essere sensato mantenere chiuse le scuole. Da un lato rappresentano un importante luogo di possibile contagio, dall’altro sono meno strategiche per la sopravvivenza immediata dell’economia – al di là degli ovvi oneri di accudimento che la loro indisponibilità riversa sui genitori. Per quest’anno dovrebbe essere potenziata la didattica a distanza e ai ragazzi e agli insegnanti dovrebbe essere richiesto il minimo “sforzo patriottico” di un percorso di studio più intenso il prossimo anno.
Allo stesso modo si potrebbe mantenere la sospensione per quelle attività legate al fitness, all’intrattenimento e alla vita serale e notturna che maggiormente concentrano molte persone in spazi limitati.
Ovviamente si deve essere consapevoli che, così facendo, si azzerano gli introiti di molte persone; tuttavia è proprio circoscrivendo il più possibile l’ambito della chiusura che è davvero possibile aiutare effettivamente le persone a cui si chiede il sacrificio di rinunciare alla loro attività.
Bisogna anche tenere presente che in una riapertura che avvenisse in queste forme, le persone difficilmente tornerebbero immediatamente al proprio stile di vita precedente al Coronavirus. La comprensione della pericolosità del virus, le abitudini sviluppate in queste settimane e anche ovviamente la “paura” convincerebbero la maggior parte delle persone a riaffacciarsi al mondo in maniera prudente, limitando per un certo periodo le interazioni e facendo ampio ricorso a precauzioni e buone pratiche (le mascherine, lavarsi bene le mani, etc.).
In questo scenario, per quanto la curva dei contagi possa rialzarsi, essa non tornerebbe mai a quegli altissimi livelli che hanno contraddistinto il periodo precedente al lockdown e la situazione potrebbe essere gestita grazie al progressivo potenziamento della capacità del sistema sanitario. In definitiva, una riapertura ragionata e “gestita” appare l’unica strada che può consentirci di uscire dallo stallo. È uno scenario verso cui comunque ci troveremo a sfociare prima o poi. Tuttavia ogni mese in più che aspettiamo ci renderà più poveri, più deboli, meno in grado di provare a ripartire.