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Ondata di antiamericanismo con il pretesto del caso Floyd, ma gli Usa restano la più compiuta democrazia liberale

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Pur con tutte le sue contraddizioni e imperfezioni, gli Stati Uniti restano la più autentica forma di democrazia liberale del mondo: i cittadini di diverse origini sono più integrati che in Europa e il potere pubblico è più limitato. Il culto della libertà individuale e della democrazia dal basso rappresentano la migliore difesa contro il totalitarismo, a cui da questa parte dell’Atlantico siamo ancora molto più vulnerabili

I fatti tragici avvenuti recentemente negli Stati Uniti, tragici tanto nell’episodio iniziale (la brutale uccisione di George Floyd da parte di un agente di polizia di Minneapolis, Minnesota) quanto in quelli successivi (gli altrettanto brutali saccheggi e violenze da parte di una minoranza dei manifestanti che hanno causato morti e distruzione in molte città americane) hanno fatto divampare sui mass media anche italiani, con poche anche se lodevoli eccezioni, una ondata di condanna dai toni assoluti e senza la minima attenuante dell’intero sistema politico e sociale statunitense. Quella che a tutt’oggi resta la più autentica forma di democrazia liberale del mondo – intendendo il termine liberale nel senso classico come quel modo di concepire i rapporti sociali che valorizza la libertà e la responsabilità individuali sopra ogni altra cosa e ad esse ricollega sia la democrazia che il miglioramento sociale – è stata dipinta come un sistema “endemicamente” razzista, gestito da corpi di polizia dispotici e violenti, accostabile senza il minimo scrupolo alle peggiori tirannie della storia recente. Qualcuno è andato ancora più oltre, e non contento del paragone con i regimi totalitari attuali a base politica, quali quello comunista cinese, o religiosa, quali quelli di molti Paesi mediorientali, ha affermato che le violenze poste in essere dalla minoranza dei manifestanti, alcuni peraltro facenti parte di vere e proprie organizzazioni stabili sovversive e violente, sono l’unico modo legittimo per porre fine a tanta malvagità incarnata nelle istituzioni americane.

Non mi soffermo sulle drammatiche contraddizioni di coloro che danno addosso agli Stati Uniti e invece scusano, ad esempio, la repressione violenta di migliaia di persone ad Hong Kong o il massacro dei cristiani (a volte legalizzato e spesso comunque tollerato) in Medio Oriente, parlando in questi casi di “scontri politici”, di “conflitti interreligiosi”, su cui si deve avere un giudizio “equilibrato”: già altri hanno messo in luce le assurdità proprie di questi ragionamenti. Dal canto mio vorrei dare un piccolo contributo a comprendere meglio i principi su cui si basano la democrazia e la società americane, di cui spesso noi scimmiottiamo le cose meno importanti (prima tra tutte l’uso dell’inglese, spesso raffazzonato, anche per i colloqui più banali tra italiani), mentre rifiutiamo di prendere in esame ed anzi disprezziamo gli aspetti positivi della vita sociale e politica d’oltreoceano, che invece potrebbero servire come termini di paragone con quella nostrana al fine di un possibile miglioramento di quest’ultima. Si tratta di aspetti positivi che sono venuti in piena luce proprio durante i disordini recenti, e che vanno messi a confronto con le negatività denunciate dalla gran parte dei media per evitare che delle verità (molto) parziali diano luogo, a prescindere dalla buona fede o meno di chi le enuncia, a delle (per non contraddirmi lo dico nella lingua di Dante) “false informazioni”, che guidano inevitabilmente a giudizi errati, prima di tutto in quanto non sono completi e meditati nel loro contenuto.

Ad esempio, quando si definisce quella americana una società razzista non si tiene conto che gli Stati Uniti sono l’unica nazione multietnica del mondo, composta di esseri umani provenienti da ogni angolo del pianeta che pur mantenendo le loro identità di origine si sentono tutti allo stesso modo americani, il che si esprime in maniera quasi perfetta quando si parla di angloamericani, italoamericani, afroamericani, ispanoamericani, nippoamericani ecc. Gli Stati uniti, insieme forse solamente ad Israele (dove peraltro la cosa si spiega con la comune identità ebraica degli immigrati), sono l’unico Paese in cui l’immigrazione (pur con tutti i suoi problemi, peraltro esagerati dai media politicamente corretti) funziona, in quanto rappresenta una risorsa che migliora la società ed è destinata a funzionare anche in futuro essendo basata su pochi principi comuni accettati da tutti, quello della libertà individuale che consente il pluralismo sociale e quello dell’autogoverno democratico che consente una gestione (anche qui con tutti i suoi difetti) dal basso della cosa pubblica, sia a livello di potere locale nei singoli stati che a livello federale. Lo rilevava già nei primi decenni dell’ottocento quel fine osservatore della democrazia americana che fu Alexis de Tocqueville. Peraltro, come tutte le cose umane, anche la libertà individuale e l’autogoverno possono degenerare in maniera patologica e portare alla “chiusura in se stessi” dei gruppi sociali o etnici, il che sta all’origine degli aspetti più condannabili del “razzismo” americano, ma sarebbe un grave errore scambiare la patologia con la regola del sistema. La società americana, grazie anche alla sua impostazione empirica, sempre aperta a correggere i propri errori, messi in evidenza anche grazie alle proteste civili, è riuscita a superare gli aspetti più aberranti del razzismo ed oggi uomini e donne di tutte le etnie occupano posti di rilievo nei vari settori della società, cosa che non avviene nelle società europee (compresa quella italiana), dove gli immigrati restano quasi sempre confinati (con una forma meno appariscente, ma non meno reale di razzismo) in aree sociali “protette” senza integrarsi nella società nazionale, anche perché molti nelle classi dirigenti nostrane, in forza del relativismo culturale oggi di moda negano l’utilità o addirittura l’esistenza di valori comuni che dovrebbero rappresentare il vero collante tra immigrati e residenti in un Paese.

Allo stesso modo, quando si afferma che negli Stati uniti vige uno stato autoritario, quasi tirannico, basato sull’azione di una polizia violenta e repressiva, si dimentica che le forze di polizia americane (locali, statali e federali) sono quelle che in tutto il mondo dispongono di minori poteri nei confronti dei cittadini. Il potere pubblico negli Stati uniti, come in tutti i Paesi di tradizione anglosassone, è infatti erede della monarchia a potere limitato (affermatasi in Gran Bretagna con la “gloriosa rivoluzione” del 1689 e i cui principi sono stati ripresi e rafforzati dei padri fondatori dell’Unione con la Costituzione del 1787 e con la Carta dei diritti, il “Bill of rights”, del 1789) e non della monarchia a potere assoluto come accade per gli stati europei continentali (Italia compresa). Negli Stati Uniti infatti ogni atto delle forze di polizia, salvo gli interventi d’urgenza, per avere efficacia verso i cittadini deve essere approvato anche nel merito da giudici rappresentati da liberi professionisti “prestati” alla funzione giudicante e quindi portati per cultura personale a valutare le cose dal punto di vista dei diritti dei singoli, al contrario di quanto avviene in tutta l’Europa continentale (e in Italia in particolare) dove i giudici, rappresentati da funzionari pubblici “burocratici”, operano essenzialmente solo un controllo formale sul rispetto da parte delle forze di polizia dei limiti previsti dalla legge, legge che spesso, almeno da noi, viene interpretata in maniera diversa da caso a caso. Tutto questo non impedisce che negli Stati uniti, come in tutti i Paesi compreso il nostro (e ci limitiamo alle democrazie occidentali: nelle dittature le violenze poliziesche sono legalizzate) si verifichino dei gravi abusi da parte delle forze dell’ordine: questo fa parte della patologia della società e della vita morale individuale, patologia che tocca anche alcuni esseri umani che portano la divisa. La tradizione del potere pubblico limitato tipica degli Stati Uniti però rende più scoperti questi episodi e consente di metterli a nudo più facilmente: da noi di fronte ad un caso di abuso del potere di polizia è purtroppo assai probabile infatti che le immagini che lo documentano vengano acquisite “agli atti” di una lunga istruttoria giudiziaria e che le eventuali proteste “dal basso” (per quelle guidate dall’alto di qualche concezione politica dominante c’è sempre spazio, anche quanto la polizia non compie alcun abuso, ma si limita svolgere i suoi doverosi compiti) vengano placate dai mass media in vista dell’accertamento futuro delle “eventuali” (si dice sempre così) responsabilità.

Proprio le proteste popolari sono state forse l’aspetto di queste drammatiche vicende che, a parere di chi scrive, è stato descritto in maniera peggiore dai mass media e da gran parte degli opinionisti, un aspetto la cui realtà è stata “falsata”, in molti casi forse senza averne piena coscienza, in maniera molto pesante tanto che si è addirittura parlato di “crisi strutturale” dello stato americano, senza tener conto che le proteste sono la forza di una democrazia liberale quale è quella d’oltreoceano. In genere nei resoconti mediatici e nelle analisi dei commentatori si è infatti tenuto conto (salvo lodevoli eccezioni) solo delle proteste violente (che non meriterebbero commento alcuno né tanto meno alcuna, anche indiretta, manifestazione di simpatia) e di quelle (rispettabili in quanto non violente, ma non condivisibili) che si basano su una distinzione bianchi/neri che non fa altro che riproporre in versione rovesciata una visione della società divisa in razze, magari colorata con i principi del politicamente corretto, dove ad un abominevole razzismo “fisico” (i neri sono inferiori) si sostituisce un altrettanto condannabile razzismo “morale” (i bianchi sono colpevoli). Per fortuna, cosa di cui molti mass media non hanno parlato e su cui molti commentatori hanno sorvolato, la gran parte delle manifestazioni sono state di tipo diverso e sono state dirette a protestare contro gli abusi compiuti da determinati individui facenti parte della polizia e non contro una razza, una classe sociale o una qualche altra entità collettiva. Molti dei cortei di protesta che si sono svolti pacificamente lungo tutti gli Stati Uniti erano composti da poliziotti in divisa di tutte le razze che hanno marciato a braccetto con civili di tutte le razze, per sottolineare che i poliziotti (bianchi e neri) non sono contro i cittadini (bianchi e neri). Mi sembra giusto dire che è in manifestazioni di questo genere, riferite alle persone singole e non ai gruppi razziali, che si avvera il sogno (“I have a dream…”) di uno dei grandi eroi americani, Martin Luther King jr., di vedere gli uomini trattati in base al loro comportamento e non al colore della pelle.

Certo il razzismo verso i neri esiste ancora negli Stati Uniti ed esistono gli abusi compiuti dalla polizia, e si tratta di realtà che vanno giustamente criticate (anche aspramente), ma molte di più sono le cose della democrazia americana che vanno lodate e dalle quali si dovrebbe prendere esempio, tra le quali prima di tutte il culto della libertà individuale e della democrazia dal basso, che da sempre rappresentano la migliore difesa contro il totalitarismo che compie i suoi crimini spesso ammantandosi di ragioni umanitarie e che non è finito con il crollo dei regimi del ventesimo secolo, ma che può sempre ripresentarsi sotto le spoglie della violenza politicamente corretta e “riparatrice” delle (vere o presunte) ingiustizie del mondo: di fronte a questo pericolo da questa parte dell’Atlantico siamo molto più vulnerabili.

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