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Ora tocca agli eredi di Gengis Khan: Pechino procede con sinizzazione forzata e repressione in Mongolia

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Continua senza soste, sotto la guida di Xi Jinping, la sinizzazione forzata delle tante minoranze etniche e linguistiche che vivono nella Repubblica Popolare. Ora tocca ai mongoli – eredi di Gengis Khan – divisi tra l’indipendente Repubblica di Mongolia, già Paese satellite dell’Unione Sovietica e tuttora nella sfera d’influenza della Federazione Russa, e la Mongolia interna, regione autonoma della Cina.

Proprio in quest’ultima Pechino sta procedendo a tappe forzate verso la suddetta sinizzazione. Nelle scuole è stato imposto il mandarino come lingua ufficiale, mentre in precedenza il mongolo aveva pari peso. Del resto è la stessa Costituzione cinese a garantire – almeno in teoria – i diritti delle minoranze e, prima dell’ascesa al potere di Xi, tali diritti venivano in sostanza riconosciuti.

Da notare che i mongoli, a differenza di uiguri e tibetani, non hanno mai causato problemi al Partito comunista. Quando, tuttavia, hanno capito che il destino della loro lingua era in pericolo, si sono mobilitati. Molti genitori minacciano di non mandare più a scuola i figli per evitare che apprendano soltanto il mandarino.

Contemporaneamente si stanno svolgendo manifestazioni di protesta nella Mongolia indipendente, dove i cittadini chiedono che i loro confratelli che vivono entro i confini della Repubblica Popolare conservino il diritto di utilizzare in ogni contesto la lingua madre.

Allo stato dei fatti appare assai difficile che Pechino soddisfi tali richieste. Xi Jinping vuole infatti accentuare in ogni modo la supremazia degli Han – i cinesi veri e propri – che da soli costituiscono circa il 90 per cento della popolazione. L’imposizione del mandarino quale unica lingua ufficiale e utilizzabile in pubblico rappresenta quindi lo strumento per imporre al Paese una omogeneizzazione completa, basata anche sulla permanenza del marxismo-leninismo quale filosofia di stato e sul recupero del confucianesimo, nella misura in cui non confligge con le teorie di Marx (e di Mao).

Come si diceva in precedenza, nella Mongolia interna non si erano mai verificati episodi di ribellione, il che induce a ritenere la mossa di Pechino quanto meno azzardata. Il rischio, ora, è che il Partito comunista sia costretto ad affrontare anche qui una crescente tensione, simile a quella che si registra da decenni in altre regioni autonome dell’immenso Paese asiatico.

Gli uiguri turcofoni e musulmani dello Xinjiang, per esempio, non hanno mai accettato la sinizzazione né il predominio degli Han. Preferiscono spesso finire nei tanti campi di concentramento cinesi presenti nella regione, pur di conservare la loro autonomia linguistica (che in questa circostanza si tinge anche di motivazioni religiose).

Tuttavia il caso più emblematico – e più noto – è quello del Tibet, da Pechino considerato, a torto, parte integrante della Cina. Il martirio di questo vastissimo territorio iniziò addirittura negli anni ’50 del secolo scorso. I comunisti di Mao avevano appena sconfitto i nazionalisti di Chiang Kai-shek e subito si lanciarono alla conquista degli altopiani tibetani. La resistenza armata degli abitanti fu durissima, ma negli anni ’70 essa fu piegata con massacri continui e con la politica della terra bruciata (anche se Pechino non è mai riuscita a spegnerla del tutto).

Pure i tibetani hanno pagato un prezzo altissimo con la rinuncia alla loro antichissima lingua, mantenuta in vita soprattutto dagli esuli, in particolare in India dove si è rifugiato il Dalai Lama. E pure in Tibet è stata favorita la penetrazione degli Han con la motivazione di modernizzare un territorio arcaico. Ovviamente tale motivazione è fasulla, giacché i tibetani hanno il diritto di condurre la loro vita rispettando le proprie tradizioni, arcaiche o meno che esse siano.

In ogni caso è evidente che Xi Jinping e il suo gruppo dirigente non hanno alcuna intenzione di fermarsi, e gli abitanti della Mongolia interna sono solo gli ultimi a sopportare le conseguenze della sinizzazione forzata. È proprio per questo che la Cina desta tanti timori tra i Paesi confinanti (e non solo). In testa i vietnamiti che hanno subito per secoli l’occupazione cinese, ma anche i kazaki, che hanno respinto la richiesta cinese di comprare vaste aree della loro nazione vedendo in essa i prodromi di una futura occupazione. Considerando tutti questi fatti, è sorprendente che la Repubblica Popolare goda spesso in Occidente di una buona reputazione. Caso emblematico è l’Italia, dove parte del mondo politico sembra credere in modo acritico alle abili mosse propagandistiche di Pechino. Senza dubbio quella di Xi Jinping è una politica spiccatamente nazionalistica. Corre però il pericolo di essere spiazzata dai tanti nazionalismi non cinesi, e repressi, che fioriscono nel suo stesso territorio.