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Sulle orme di Edmund Burke: quel legame tra morti, viventi e non ancora nati

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Ma tanta nostalgia per quel dialogo impossibile con chi non c’è più

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Recensendo libri (di recente, il bellissimo “Grief works” di Julia Samuel) o traendo spunto da casi di cronaca, mi rendo conto di avere spesso parlato della morte nell’ultimo anno. La morte, proprio lei: quella implacabile, quella con la falce e la clessidra del Settimo Sigillo.

Quella che rimuoviamo, esorcizziamo, scansiamo. Perfino nei grandi dibattiti pubblici sull’eutanasia, si ha a volte la sensazione di una discussione molto sincera ma in fondo astratta, lontana dal nostro personalissimo vissuto: anzi, parlare in modo appassionato e partecipe della morte in generale (o della morte di persone lontane e non conosciute) diventa quasi una maldestra difesa psicologica per allontanarla da casa nostra, da noi stessi, da una persona cara.

E invece la morte è sempre lì. Non solo in agguato materialmente, come sappiamo fin troppo bene. Ma in agguato pure psicologicamente: a ricordarci che, in un’epoca in cui siamo portati a ritenere che tutto si possa fare o sistemare, qualcosa – invece – non può essere “corretto” né “aggiustato”.

Naturalmente, chi ha il dono della fede, di una fede, può non solo trovare consolazione (necessaria come il pane per gli esseri umani), ma anche dare più efficacemente un senso al nostro transito sulla terra. Una spiegazione è a disposizione, in quel caso.

Chi invece, come me, non ha certezze, e quindi cerca ma non trova, e sta nel territorio agnostico del dubbio, può forse recuperare le meravigliose pagine che Edmund Burke, uno dei padri del conservatorismo britannico, dedicò al legame tra morti, viventi e non ancora nati, immaginando la vita e la società come “progetti” multigenerazionali. Riceviamo un’eredità, e a nostra volta siamo chiamati a lasciare almeno un legato.

In questa staffetta tra chi non c’è più, chi c’è ora e chi ci sarà domani, in questo testimone che riceviamo e trasmettiamo, c’è una grande lezione – insieme – di umanesimo laico e di connessione possibile tra individuo e società. Starei per dire che un liberale possa davvero trovarvi una consolazione profonda, diversa ma significativa tanto quanto quella di un sincero credente.

Eppure, per quanto il ragionamento sia intellettualmente stimolante (e convincente), resta un elemento emotivo insopprimibile, non medicabile, non “risolvibile”. E’ sufficiente il piccolo innesco di un ricordo, di un anniversario, l’improvvisa memoria di una persona che non c’è più, per scatenare la nostalgia di un dialogo ora impossibile, il rimpianto per una conversazione che (oggi, per come la puoi immaginare) sarebbe più profonda e più distesa, per una carezza non data o non compresa.

La vita di chi resta è segnata da queste tracce: l’assenza di chi non c’è più, qualche inevitabile senso di colpa, il vuoto di una parola senza più un destinatario. E per lenire queste ferite, non bastano Twitter, Facebook, gli affanni del quotidiano, le ansie del lavoro, e la Grande Distrazione in cui siamo immersi.

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