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Out and Into the World. Una Brexit liberale, la versione di Boris Johnson

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L’ipotesi proibita, la seconda almeno: un nuovo referendum dopo quello del 23 giugno 2016 che ha sancito l’inizio della Brexit cogliendo molti di sorpresa. Perché, per quanto nell’aria ci fosse il sentore di un testa a testa Leave-Remain, in pochi l’avevano presa davvero in considerazione. È impossibile che si materializzi, ma se dopo tutto era impensabile che l’Ue avrebbe perso un pezzo come invece accaduto, tanto vale rifletterci sopra. Lo ha fatto pure Nigel Farage, l’ex leader dello UKIP, un Leaver incarnato, ad inizio gennaio: “Mi sto mentalmente preparando all’idea che, come accaduto in Danimarca e Irlanda, ci venga chiesto di votare una seconda volta e dobbiamo essere pronti. Ritengo che se ci fosse un secondo referendum sulla permanenza nell’Unione europea, ce ne libereremmo per un’intera generazione”.

Una dichiarazione polemica verso quella classe dirigente che si sta ingegnando per fermare le lancette dell’orologio (smetteranno di girare il 29 marzo 2019). L’ultimissima arma per la controffensiva è stata svelata e si chiama Best for Britain, gruppo di pressione che si prepara ad una campagna porta a porta per sottolineare i rischi a cui va incontro il Regno Unito e che raccoglie sostegni dal mondo della politica, dell’imprenditoria e della finanza: c’è anche George Soros che dopo le polemiche scaturite dalla donazione di 400.000 sterline, ne ha aggiunte altre 100.000.

Sull’isola soffia un vento di incertezza, comunque preventivabile in una delicata fase di transizione, ma i fattori umani incidono parecchio. La leadership di Theresa May è azzoppata, l’opposizione laburista ne approfitta e si fa largo con la figura barbuta di Jeremy Corbyn che durante il referendum ha saputo camuffare bene la propria posizione: “Non importa quante volte abbia visto la signora May attaccare il signor Corbyn sulla Brexit. Non credo che mi ci abituerò mai. Una donna Remainer che finge di essere Brexiter, che accusa un Brexiter che finge di essere Remainer di non essere sufficientemente Brexiter“, riassumeva il cronista del Telegraph Michael Deacon lo scorso 12 dicembre.

I negoziati vanno avanti o indietro, è ancora difficile comprendere lo scenario che si sta delineando. I dati economici possono confondere: per il 2017 si temeva una timida crescita dell’1 per cento alla quale in seguito è stato aggiunto mezzo punto; qualche istituto prevede una crescita doppia per l’anno corrente, mentre i dati giunti dal Ministero dell’economia indicano un +1,4. L’inflazione si è fermata al 3 per cento. L’opinione pubblica resta divisa: gli scarti tra le due fazioni sono sempre minimi, tra l’1 e il 3 per cento a favore dell’una o dell’altra e vivono spesso alla giornata, sul clamore più o meno rumoroso di alcune notizie.

L’ipotesi proibita, il secondo referendum, magari sugli accordi raggiunti tra il Regno Unito e l’Unione europea, resta impossibile, ma calza a pennello a questo panorama confuso. Anche perché – è bene ricordarlo – nel sistema politico britannico l’esito referendario non è vincolante, per garantire la sovranità del Parlamento: da qui le polemiche sollevate ripetutamente sulla scelta del governo May di non sottoporre al voto dei Comuni l’accordo finale con l’Ue e sui timori tra i Brexiteers che il processo possa naufragare per iniziativa parlamentare. In una nazione dove questo strumento legislativo non è mai stato largamente adottato, l’idea di una seconda consultazione ha i tratti di un argomento di dibattito tra partiti e correnti e tra le parti in causa, specialmente quella filo-europeista, per mettere in crisi l’esecutivo e affievolirne la strategia (sempre ammesso che ce ne sia una condivisa al suo interno) durante le contrattazioni: in questo modo il futuro apparirebbe sempre più grigio e le burrasche si farebbero sempre più intense e continue così da creare i presupposti per bloccare la complessa macchina in movimento.

È il timore che ha espresso anche Boris Johnson con il discorso pronunciato mercoledì e con il quale puntava a rassicurare la parte più ostica dei Reimaners: per il Foreign Secretary il ribaltamento della volontà popolare equivarrebbe ad un tradimento e “non possiamo permettere che accada”. “Per coloro che davvero vogliono rendere la Gran Bretagna meno insulare, la risposta non risiede nel sottostare per sempre al potere legale dell’Unione europea, ma nel pensare a come possiamo aggirare la separazione fisica che si è creata alla fine dell’Era glaciale”, ha proseguito con i toni che contraddistinguono la sua retorica. La Brexit non deve essere vista “come un gesto offensivo (V-sign) dalle scogliere di Dover”. “La gente ha votato Leave – ha proseguito – non perché ostile alla cultura e alla civiltà europea, ma perché voleva riprendere il controllo. Per questo motivo è fondamentale non considerare Brexit come una piaga o una pestilenza di massa, ma come un’opportunità”.

Quell’opportunità già espressa nello slogan di chi era scettico sull’ingresso stesso nell’allora Comunità economica europea: Out and into the world. “Brexit vuol dire un nuovo impegno di questa nazione con la sua identità globale e tutte le energie che da essa derivano. Uniamoci su ciò in cui tutti crediamo: un futuro globale liberale e proiettato in avanti per un Regno Unito sicuro di sé. Ha a che fare con la fiducia nei propri mezzi e con un legame alla propria nazione”.

Il pensiero di Johnson – spesso ritratto come un incompetente dai suoi detrattori – sulla responsabilità intesa come dovere di fornire risposte (“Se accettiamo delle leggi, allora dobbiamo avere chiaro chi le sta facendo e per quali motivi ed essere in grado di chiederglielo con il nostro linguaggio, e dobbiamo sapere come sono arrivati ad avere autorità su di noi e come possiamo rimuoverli”) ha radici forti nel campo conservatore inglese: preservare l’identità e l’idea di nazione, senza confonderla con un principio nazionalista. “L’elemento essenziale delle nazioni è che esse nascono dal basso, attraverso le inclinazioni ad una libera associazione tra persone che vivono accanto e che si traducono in legami con un luogo e la sua storia”, scrive Roger Scruton nel suo “How to be a Conservative” del 2014. Per il filosofo nelle istituzioni europee “non risiede la prima persona plurale”, essendo solo delle espressioni politiche e nient’altro. La vera sfida di Brexit è, come direbbe Adam Smith, di mantenere le leggi e le istituzioni britanniche in salute, condizione essenziale perché una nazione possa prosperare o meno.

Per dirla come lo Spectator nel numero pubblicato alla vigilia della grande scelta, “scartare l’ipotesi di fermare il meccanismo per cui le nostre leggi vengano scavalcate dal Lussemburgo e che la nostra democrazia sia erosa da Brussels sarebbe una privazione alla responsabilità”. Il secondo referendum, l’ipotesi proibita, appare come una scusa per schivarla.