È davvero il caso di dire che i Paesi occidentali mantengono, nei confronti di Taiwan, un atteggiamento codardo da un lato, e ipocrita dall’altro. L’isola, pur prospera dal punto di vista economico e commerciale, è quasi assente sul piano politico e riconosciuta diplomaticamente soltanto da una manciata di Paesi (per lo più di secondo piano). Situata a poche miglia dalle coste cinesi, gli esploratori portoghesi nel XVI secolo la chiamarono “Formosa”, nome diventato famoso nel ’900 quando era in atto la Guerra Fredda tra il blocco occidentale e quello comunista.
Per alcuni decenni Taiwan venne difesa a spada tratta dagli americani, con il supporto dei loro alleati, poiché era vista come un bastione filo-occidentale in grado di infastidire la Repubblica Popolare di Mao. E infatti i comunisti cinesi non cessarono di rivendicarla, giacché la considerano parte integrante del loro territorio nazionale.
Dal canto suo Taiwan non ha mai rinunciato a chiamarsi “Repubblica di Cina”, e quindi vera erede di quella fondata nel 1912 da Sun Yat-sen dopo la deposizione dell’ultimo imperatore della dinastia Qing. Ed è dunque erede anche del Kuomintang, il partito nazionalista che governò fino alla vittoria di Mao Zedong nel 1949, e poi trasferitosi per l’appunto a Taiwan sotto la guida di Chiang Kai-shek.
Solo curiosità storiche? Non proprio. Taiwan continua imperterrita a celebrare la festa della sua indipendenza che, definendosi “Repubblica di Cina”, risale secondo gli isolani per l’appunto ai primissimi decenni del secolo scorso. Pechino, vale a dire la “Repubblica Popolare Cinese”, non è d’accordo e non cessa di minacciare il ricorso alla forza. Per quale motivo? Perché la RPC insiste da sempre sul concetto di “una sola Cina” ed è pronta a tutto per ribadirlo.
Il fatto è che Taiwan è indipendente de facto, ma non de jure. Passato da tempo il periodo in cui Taipei aveva il seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e rappresentava – almeno nominalmente – tutto l’immenso Paese asiatico, la sensazionale crescita della Repubblica Popolare l’ha sempre più messa all’angolo.
Sono moltissimi i Paesi che hanno ritirato il riconoscimento diplomatico, e restano rapporti formali soltanto con poche nazioni sudamericane e africane, con l’aggiunta di alcuni piccoli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico. Tutto qui.
Sono invece tanti quelli che intrattengono intensi rapporti economici e commerciali, dal momento che Taiwan, annoverata tra le “tigri asiatiche”, è una potenza industriale. Si noti che, pur dipendendo l’indipendenza dell’isola dalla protezione militare Usa, gli stessi Stati Uniti non hanno più relazioni diplomatiche formali con Taipei. Fu uno dei prezzi pagati quando Washington scelse sotto la presidenza Nixon di riallacciare i rapporti con Pechino, interrotti dopo la vittoria di Mao.
Anche il Vaticano, pur non rompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan, le sta riconsiderando in vista di migliori rapporti con la Repubblica Popolare. Il realismo sta insomma spingendo tutti a tener conto dello status di potenza globale acquisito dalla Cina comunista.
In questo senso Taiwan – più ancora della ormai “domata” Hong Kong – rappresenta una pedina fondamentale nella partita a scacchi che Usa e Cina stanno giocando per il predominio nell’Asia orientale e nel Pacifico. Finora era difficile capire fino a che punto gli americani sono disposti a spingersi per tutelare un vecchio e tradizionale alleato. E fino a che punto si spingerà Pechino per ribadire che la Cina è soltanto una.
Gli ultimi avvenimenti ci indicano una maggiore fermezza da parte Usa. Biden ha infatti detto in modo esplicito che gli Stati Uniti difenderebbero l’isola qualora la Repubblica Popolare la attaccasse. E l’atteggiamento di Pechino è diventato nel frattempo sempre più duro, con centinaia di aerei da guerra cinesi che incrociano quotidianamente sui cieli di Taiwan, e con frequenti dichiarazioni di Xi Jinping volte a riaffermare il dogma di “Una sola Cina” (quella comunista, ovviamente).
Il fatto è che i taiwanesi si considerano sì cinesi, ma non vogliono vivere sotto un regime comunista. L’hanno confermato nelle ultime due elezioni politiche, che hanno visto una vittoria schiacciante del partito indipendentista dell’attuale presidente Tsai Ing-wen. Donna coraggiosa ma invisa alla leadership di Pechino perché non è per nulla disposta ad accettare i diktat degli eredi di Mao.
Dal punto di vista diplomatico la situazione è a dir poco ridicola. Per non offendere Pechino quasi nessuno osa chiamare Taiwan “Repubblica di Cina”. Le sue rappresentanze all’estero sono chiamate “di Taipei” per non irritare la superpotenza comunista. E se qualcuno non lo fa, per esempio la Lituania che in luglio ha aperto a Vilnius un ufficio di rappresentanza “di Taiwan”, incorre subito nei fulmini della Repubblica Popolare, con annesse minacce di ritorsioni economiche e commerciali.
Del resto i cinesi sono riusciti a espellere Taiwan da tutti gli organismi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite per finire con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. E questo nonostante da Taipei fosse partito il primo serio allarme per l’epidemia di Covid-19. Allarme rimasto, giova rammentarlo, del tutto inascoltato. Se a questo aggiungiamo che neppure gli stessi Stati Uniti hanno una vera ambasciata nell’isola, il quadro è completo.
Eppure Taiwan è un Paese che soddisfa – a differenza della Repubblica Popolare – tutti i criteri internazionali relativi al rispetto dei diritti umani. È inoltre una nazione che pratica la democrazia liberale, con più partiti in competizione tra loro per la conquista del potere, e con la garanzia dell’alternanza tra essi.
Tutti sanno che Pechino è in grado di far vincere i propri ricatti grazie alla sua potenza economica e commerciale. Evidente che Bill Clinton non aveva previsto un simile esito quando, nel 2001, promosse l’entrata di Pechino nell’Organizzazione per il commercio internazionale “Wto” (e, ancora una volta, la conseguente espulsione di Taipei).
Le recenti affermazioni di Joe Biden denotano – si spera – un’inversione di tendenza. Così come l’apertura di nuove sedi di rappresentanza taiwanesi in Paesi che ne erano sprovvisti, in particolare nell’Europa orientale. Un’inversione di tendenza davvero necessaria. Americani, e occidentali in genere, non possono continuare a favorire un regime brutalmente dittatoriale a scapito di una nazione che è a pieno titolo una democrazia liberale.