Con liberali così, chi ha mai bisogno dei comunisti?
Il governo Draghi, scrive Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano, sarebbe nientemeno che il “gabinetto di un governo paleoliberista di destra”. Prova provata, annota il professore, il coinvolgimento con nomina governativa, quale consulente, di Serena Sileoni e il fondamento culturale complessivo del governo che si baserebbe sulle indicazioni dell’economista Francesco Giavazzi e dell’Istituto Bruno Leoni.
Che del governo sia ministro Roberto Speranza, cantore della rinnovata egemonia della sinistra in tempi post-pandemici e in favore del quale lo stesso Montanari ha firmato una petizioncina di quelle da far sbrodolare tutti gli intellò dagli anni sessanta in poi, e che la maggioranza, eterogenea e composita, sia sostenuta da forze politiche il cui grado di liberismo potrebbe essere misurato sulla scala che va da uno a Soviet Supremo, la dice lunga assai su una certa distorsione della percezione del reale politico.
Colgo anche l’ironia di certe asserzioni quando persino l’ala (presunta) liberale della maggioranza ha scoperto le bellezze del salvataggio ennesimo di partecipate statali fallimentari o delle assunzioni di massa nel pubblico impiego con quizzetti livello patente di guida, e con sincero anelito twittarolo si produce in una inesauribile opera di beatificazione del pubblico impiego e di qualunque spesa pubblica. Con liberali così, mi vien da dire, chi ha mai bisogno dei comunisti?
Ad ogni buon conto, colgo il suggerimento del dipendente pubblico (e come tale garantito) Montanari per la edificazione di un generale paleolibertarismo italiano.
Non mi faccio alcuna illusione sul fatto che qualcuno possa davvero raccoglierla, al di là di qualche formale adesione, perché la libertà è una strada per pochi, e servono spalle belle larghe e gambe forti per incamminarsi su di essa. Ma il tentativo, specie in questo peculiare momento storico, va fatto.
Non mi faccio illusioni, dicevo, perché lo spettro liberale della offerta italiana è assai deprimente, considerando che in Italia praticamente chiunque tenta di definirsi in quel modo, senza però che debba rinvenirsi una qualche coerenza tra l’enunciato e una precisa, conseguente visione culturale ed economica.
Il paleolibertarismo italiano deve, innanzitutto, superare l’idea che possa esistere un debito buono. Per decenni gli italiani hanno dovuto sussidiare carrozzoni pubblici e para-pubblici il cui rendimento ha sfidato la pazienza, e le tasche, di chi è stato chiamato a partecipare a questa riedizione dell’oro alla Patria, senza che da ciò derivasse il benché minimo beneficio.
Ogni singola società partecipata deve essere integralmente privatizzata o lasciata fallire, senza che a ciò possa corrispondere il minimo ripensamento. Per anni abbiamo sentito parlare di riordino, di razionalizzazione, persino di censimento, visto che nessuno ha mai capito quante davvero siano queste società. Anche qui, alle parole, agli intenti e agli enunciati non sono seguiti fatti degni di nota: il perché lo si intuisce, visto che quel carrozzone garantisce, tra nomine e assunzioni, una platea elettorale assai ampia.
Vanno cancellati dall’orizzonte dell’ordinamento i redditi variamente denominati: di cittadinanza, di emergenza, e qualunque ipotesi di salario minimo. La loro natura anti-competitiva e assistenzialistica finisce per svuotare di senso qualunque vera partecipazione civile ad una società che la stessa Costituzione prevede come “fondata sul lavoro”, e non sulla carità di Stato.
Il paleolibertarismo italiano deve superare l’idea della possibilità stessa dell’intervento statale in economia. La pandemia ha dimostrato come lo Stato sia uno dei legacci più evidenti: procedure lente, ossificate, stantie, una burocrazia incapacitante hanno aggravato la crisi sanitaria, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il paleolibertarismo italiano deve fondarsi sulla idea del radicale snellimento del pubblico impiego e in generale della pubblica amministrazione, da anni freno di qualunque ipotesi di semplificazione e di sviluppo economico. Semplicemente, ogni immissione di nuovo personale deve corrispondere alla fuoriuscita di chi non è al passo coi tempi: licenziare per scarso rendimento è possibile, e teoricamente già previsto dall’ordinamento, e deve essere fatto. La si finisca con ministri presunti liberali trasformatisi culturalmente in dirigenti della Cgil.
Sotto la voce “pubblico impiego” si situa anche la funzione giurisdizionale, le cui storture sono evidenti e sotto gli occhi di tutti: appare chiaro come debba essere perseguita con forza da un lato la separazione delle carriere dei magistrati, non ritenendo conforme a un sistema liberale di giustizia che il giudicante e il requirente possano percepirsi come partecipi della medesima classe, ingenerando distorsioni palesi.
Ai magistrati deve essere poi applicato un rigoroso regime di incompatibilità assoluta con qualunque altro incarico, eliminando il concetto stesso di “fuori ruolo”. Non esisteranno più magistrati capi di gabinetto, capi dell’ufficio legislativo, dirigenti ministeriali, consulenti e via dicendo. Chi volesse seguire queste strade potrà dimettersi dall’ordine giudiziario, senza alcuna possibilità di farvi ritorno.
Allo stesso tempo è irrinunciabile procedere con una autentica “fuga” dal giudizio, privatizzando ed esternalizzando quanto più possibile: l’arbitrato è l’unica forma di giustizia davvero accettabile perché presuppone tecnicamente lo spirito competitivo e concorrenziale, e non il monopolio dell’esercizio della funzione giurisdizionale appannaggio dello Stato.
D’altronde, per chi dovesse temere una giustizia su misura di benestante si può notare come già oggi nei fatti il monopolio esercitato in sede di funzione giurisdizionale porti ad asimmetrie e dislivelli palesi, per cui a pagare il prezzo più alto sono i ceti svantaggiati: senza contare che i fenomeni patologici e distorsivi, come ad esempio quelli corruttivi, sono maggiormente legati a dinamiche monopolistiche di esercizio del potere.
Non appare peregrino immaginare come al contrario competizione e concorrenza autentica nella ricerca di agenzie arbitrali potrebbero contemperare aumento dell’efficienza nel giudizio, nei suoi tempi e nel rendere competitivi, in quanto dettati dal mercato, gli stessi costi.
Il paleolibertarismo italiano riconosce partiti e sindacati come associazioni private e non assegna loro alcuna funzione pubblica. È tempo di finirla con consigli di amministrazione ingolfati dalla presenza di esponenti sindacali, di contratti collettivi, di rendite di posizione, di previdenze e stipendi privilegiati.
Il paleolibertarismo reclama il diritto di proprietà come un diritto assoluto e sacro, il diritto su cui tutto si fonda, origine della civiltà: qualunque intervento statale limitativo dei diritti connessi al libero godimento della proprietà deve cessare. Deve porsi fine al blocco degli sfratti, a imposizioni fiscali tremende, alla acquiescenza silente nei confronti di occupazioni e dell’abusivismo visti con indulgente benevolenza da un potere pubblico prono al concetto di “giustizia sociale”.
Il paleolibertarismo, in tema di libertà, respinge qualunque limitazione alle libertà individuali. Ripudia la visione di una etica di Stato pubblicamente imposta e rifiuta il concetto di salute pubblica, trasformata in occasione ghiotta per egemonie politiche post-pandemiche. Non esistono diritti-tiranni fagocitanti gli altri diritti o le altre libertà. Bisognerebbe ricordare a chi celebra nella salute l’unico diritto esistente nel nostro ordinamento come senza libertà e senza economia loro stessi non vedrebbero più lo stipendio a fine mese.
Arriviamo da un anno di ferocissime limitazioni alla libertà del singolo, un anno nel quale soprattutto si è visto l’innescarsi di una pericolosa regressione culturale e istituzionale al cui esito siamo tornati a sentir parlare di concessioni, autorizzazioni, graziosi permessi elargiti con voluttà dal potere sovrano.
I comunisti firmatari dei soliti appelli in favore di chi ci ha tenuti reclusi per un anno, comodamente seduti sulle loro poltrone, garantiti dal denaro ricavato dal sangue di chi davvero lavora, conoscono bene quel linguaggio e non casualmente sono tornati a proporcelo: il loro sogno di una Italia ridotta a riproduzione strutturale di un “paradiso” socialista intessuto di grigiore e “concessioni” ha iniziato a prendere forma.
Vogliono dirci cosa fare, come farlo. Come pensare. Come agire. Come amare e come sognare.
Sono pur sempre dei comunisti, per quanto possano dirsi liberali.
Il paleolibertarismo sposa il decentramento funzionale e territoriale: se l’individuo rappresenta il cardine di edificazione di un ordine davvero libero, allo stesso tempo sono le aree territoriali differenziate, in forza del principio di differenziazione autentica e di sussidiarietà, a poter fare la differenza, senza necessità di centralismo esasperato e di assistenzialismo che finisca per dirottare risorse lontano da dove le stesse vengono prodotte.
Il futuro è nei territori e nelle città, non negli agglomerati statali elefantiaci, eccessivamente complessi, dispersivi, ossificati e lenti nei loro percorsi decisionali.
Il paleolibertarismo avversa la religione secolare dei diritti civili, comodo alibi semantico e culturale per aggredire la libertà di espressione e il confronto dialettico: è intrinsecamente conservatore, ed in questo si sostanzia il suffisso “paleo”, perché crede nella legge naturale e nelle potenzialità inventive del singolo individuo.
Non esistono né possono esistere diritti delle presunte minoranze, espressione che nei fatti solidifica una perniciosa discriminazione di Stato. Una discriminazione, anche se “positiva”, permane quale discriminazione, presupponendo una ontologica minorità del soggetto o dei soggetti coinvolti. Ogni presunto nuovo diritto non tutela davvero ma alloca solo risorse per il consolidamento della classe politica al potere in un dato momento storico, finendo per discriminare sempre di più e traducendosi in aggressioni contro le libertà altrui.
Questa è la linea tracciata, il piccolo solco per porre alcuni puntini e per definire la differenza che intercorre tra vera libertà e comunismo mascherato semanticamente da libertà.