Una settimana fa il premier israeliano Netanyahu convocava una conferenza stampa in una base militare israeliana e, per mezzo di un power point, descriveva in un perfetto inglese lo stato del programma nucleare iraniano, rivelando al mondo che il Mossad era riuscito ad ottenere oltre 55.000 file trafugati direttamente da Teheran, in grado di dimostrare le violazioni all’accordo nucleare compiute dalla Repubblica islamica.
Dopo quella conferenza stampa sono iniziate le discussioni in merito alla qualità delle informazioni rivelate da Netanyahu, con buona parte dell’establishment europeo – fortemente interessato alle relazioni commerciali con gli iraniani – pronto a chiarire che “quanto dichiarato dal premier israeliano rafforza l’importanza dell’accordo nucleare”.
Tralasciamo per un momento queste discussioni e facciamoci una domanda probabilmente più interessante: a chi parlava Netanyahu durante la conferenza stampa? Apparentemente, parlando in inglese, la risposta sembrerebbe essere unicova: parlava la presidente Trump, alla viglia della prossima decisione degli Stati Uniti di rimanere o di uscire dall’Iran Deal. Affermazione indubbiamente veritiera, ma anche un pochino ingenua. Davvero Stati Uniti e Israele, per parlare dell’Iran Deal, hanno bisogno di una conferenza stampa? In fondo, rovesciando la medaglia, un simile evento potrebbe sia rafforzare la scelta di Trump di uscire dal JCPOA, ma potrebbe anche risultare sgradita da parte della Casa Bianca. Se a Washington infatti l’intenzione non è quella di abbandonare totalmente l’accordo nucleare, la conferenza stampa di Netanyahu deve essere risultata una invasione di campo non richiesta.
Rinnoviamo quindi la domanda: a chi parlava allora Netanyahu? La risposta è duplice: in primis parlava agli israeliani. In un momento di difficoltà personale derivata dalle inchieste giudiziarie e in vista delle elezioni del prossimo anno, Netanyahu ha messo in scena uno spettacolo dei suoi, allo scopo di convogliare intorno alla sua figura il peso dell’elettorato di destra israeliano. Dando di se una immagine forte e spavalda, Netanyahu punta a superare i suoi problemi personali, ottenendo il sostegno diretto dell’elettorato israeliano. Cosi facendo Netanyahu vuole anche mettere ai margini i leader che, proprio da destra, mirano a prendere il suo posto (a sinistra, almeno per ora, di figure competitive non se ne vedono).
Se l’obiettivo però fosse stato unicamente il pubblico israeliano, probabilmente, non era necessario fare una conferenza stampa in inglese e sull’Iran. Certo è un tema forte per l’elettorato israeliano, ma non è l’unico che preoccupa il Paese. Allora: a chi altro parlava Bibi? La risposta è una sola: al mondo arabo sunnita! Nonostante le grandi novità che sta apportanto al dibattito internazionale il vice Re saudita Mohammed Bin Salman, si tratta ancora di una figura politica debole, il cui successo dipenderà moltissimo dalla capacità di trasformare l’economia nazionale e di uscire dal gravissimo stallo creatosi con la guerra in Yemen.
Con un Erdogan ormai alleato di Putin e preoccupato della sua stabilità interna, l’intero mondo arabo sunnita si ritrova con pochi assi da giocare, nella sua grande partita con il vero nemico: l’Iran sciita degli ayatollah. Nonostante tutte le condanne e tutte le tattiche messe in atto sinora, il mondo arabo sunnita resta estremamente diviso al suo interno e soprattutto incapace di mettere in atto una grande strategia, per contrastare la Repubblica islamica khomeinista.
Israele lo sa e soprattutto lo sa Benjamin Netanyahu. Questo non significa che Gerusalemme sia disposta ad andare alla guerra contro l’Iran per far felici gli arabi sunniti. Assolutamente no: qualsiasi decisione Israele metterà in atto militarmente contro Teheran, sarà basata quasi unicamente sugli interessi nazionali di Israele. La consapevolezza delle debolezze del mondo arabo sunnita di fronte all’Iran, serve ad Israele per rafforzare il suo status di potenza regionale e soprattutto proseguire nella normalizzazione de facto con buon parte con buona parte della regione mediorientale. Chiaramente, con lo scopo non dichiarato di continuare a relegare ai margini la narrativa della cosiddetta “questione palestinese”. Obiettivo che, considerando la poca astuzia della leadership palestinese, rischia di non essere poi un compito cosi arduo…