Parler, il nuovo social che sfida Twitter sul terreno della libertà d’espressione

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La questione fondamentale è se i social network devono essere considerati degli “editori” e come tali titolati a perseguire una loro linea editoriale, anche legittimamente di parte – oppure se devono essere considerati della piattaforme tecnologiche neutrali che devono dare voce a tutti gli utenti senza entrare nel merito di valutazioni politiche dei contenuti

In questi giorni sta crescendo l’interesse per il giovane social network Parler, in virtù dell’approdo su di esso di vari esponenti di primo piano della destra americana, tra i quali Ted Cruz, Rudy Giuliani e Rand Paul.

Sono insistenti le voci che il presidente Trump potrebbe decidere a breve di abbandonare Twitter a favore di Parler, eventualità che ovviamente rappresenterebbe uno snodo cruciale per la dinamica di crescita della nuova piattaforma.

Donald Trump e i Repubblicani sono, nei fatti, sempre più frustrati dalla censura che Twitter e gli altri maggiori social network, come Facebook e Youtube, stanno riservando a contenuti politici di orientamento conservatore. Twitter è arrivato a censurare alcuni post del presidente.

La questione fondamentale è se i social network devono essere considerati degli “editori” e come tali titolati a perseguire una loro linea editoriale, anche legittimamente di parte – oppure se devono essere considerati della piattaforme tecnologiche neutrali che devono dare voce a tutti gli utenti senza entrare nel merito di valutazioni politiche dei contenuti.

Ciascuna di queste due possibili classificazioni porta con sé una serie di implicazioni ed è finalmente tempo che esse siano pienamente comprese ed esplorate adeguatamente dal dibattito.

In realtà ai principali social network non conviene essere considerati dalla legge come degli editori tradizionali, perché una simile identificazione porterebbe onerose conseguenze in termini di responsabilità su tutti i materiali pubblicati – mentre la legge americana è chiara nel consentire a chi si classifichi come un “neutral public forum” di essere schermato da rischi di denuncia.

Il fatto è che per essere un “neutral public forum” devi, va da sé, essere neutrale, mentre Twitter, Facebook e YouTube sono, invece, sempre più “forza in campo” nel dibattito politico e culturale portando avanti politiche di gestione dei contenuti che tendono a penalizzare e limitare la visibilità di post di destra.

Nel corso di un’audizione al Congresso nel 2018, il senatore repubblicano Ted Cruz ha messo seriamente in difficoltà il CEO di Facebook Mark Zuckerberg sull’argomentato, chiedendogli espressamente se Facebook debba essere considerato un “neutral public forum”. Zuckerberg ha risposto in modo vago e insoddisfacente, sostenendo genericamente che Facebook è una “piattaforma per tutte le idee”.
Cruz, tuttavia ha continuato a incalzare. “La domanda è semplice. La base per l’immunità dalla responsabilità è che voi siate un forum pubblico neutrale. Quindi, vi considerate un forum pubblico neutrale o siete impegnati in un discorso politico – cosa che è naturalmente vostro diritto sulla base del Primo Emendamento? In definitiva, siete un’entità che parla sulla base del Primo Emendamento oppure siete un neutral public forum che consente a chiunque di parlare?”

È chiaro che i grandi social network non vogliono essere con chiarezza nessuna delle due cose – ma una via “intermedia”, in modo da non dover essere responsabili dei contenuti veicolati, ma al tempo stesso conservare la flessibilità necessaria per poter operare politiche di filtraggio dei contenuti sulla base di considerazioni di natura politica – quindi fondamentalmente discriminatorie – quando ritenuto “opportuno”.

Ora, da un punto di vista strettamente liberista, si potrebbe certamente argomentare che un social network ha, a prescindere, diritto di fare quello che vuole – e chi non ci sta è semplicemente libero di andarsene.

Tuttavia, le questioni poste dalla posizione fortemente dominante esercitata dai maggiori social network non possono essere prese totalmente alla leggera.

Il fatto che alla condizione di quasi-monopolio esercitata dalle principali reti sociali debba corrispondere qualche responsabilità in più in termini di imparzialità non appare, nei fatti totalmente, peregrina.

Occorre considerare, in particolare, che ai social network è stata conferito, in pratica, un potere molto maggiore di quello che, ad esempio, i telespettatori abbiano mai conferito alla scatola televisiva. Oggi infatti la nostra “identità digitale” – il nostro profilo Facebook, il nostro account Twitter, il nostro canale Youtube – rappresenta una componente molto importante della nostra identità di persona. Quanta parte della nostra interazione sociale passa attraverso questi strumenti? Quanti ricordi, quanti momenti intimi della nostra vita abbiamo affidato ad essi? Senza contare che alcuni di noi utilizzano i social network anche come strumento di lavoro. Si capisce bene come la cancellazione di un account o anche semplicemente la sua sospensione – magari per aver fatto qualche post politicamente “inappropriato” – rappresenta, per certi versi una sorta di “morte civile” in versione moderna.

Non è detto, naturalmente, che la soluzione migliore a questo problema passi da una qualche forma di regolamentazione legislativa, cioè dall’implementazione per via politica di qualche “par condicio” o di “divieto di censura”, ma al tempo stesso non si può non vedere il problema – che c’è ed è estremamente rilevante.

Per chi crede nell’economia liberale, naturalmente, la prima strada da percorrere è sempre quella della concorrenza – e in questo senso la sfida di Parler va assolutamente incoraggiata perché rappresenta il tentativo di proporre una “soluzione di mercato” alle derive monopoliste dei principali player del settore.

Se riesce a superare le fortissime isteresi che giocano a favore di Twitter, Parler potrebbe fare davvero del bene.
Innanzitutto sviluppandosi, esso stesso, come luogo telematico di successo in grado di arricchire il dibattito civile, culturale e politico.

In secondo luogo facendo capire a Twitter che non può semplicemente “fare quello che gli pare”, che gli utenti sono effettivamente in grado di votare con i piedi e che quindi determinate scelte editoriali selettive e discriminatorie nei confronti delle posizioni conservatrici si pagano in termini di numero di utenti e quindi in termini economici.

Infine, su un diverso piano, consentendo di coordinare ed organizzare l’opinione pubblica conservatrice in un mondo in cui la capacità di disporre di reti politico-culturali organizzate e militanti è spesso più importante dei numeri assoluti per determinare l’“agenda setting”.

Ma Parler può farcela? Sicuramente si scontra con fortissime barriere all’ingresso. Per quanto da un punto di vista prettamente tecnologico, passare da Twitter a Parler sia questione di pochi click, sul piano pratico per un social network piccolo è molto difficile crescere. Pochi utenti vuol dire pochi contenuti e pochi contenuti vuol dire pochi utenti.

Inoltre, la connotazione “a destra” – e quindi politicamente scorretta – non “piace alla gente che piace”. Le personalità di successo che tirano i grandi numeri sui social si terranno lontane o perché schierate a sinistra con il cuore oppure perché, più prosaicamente, schierate a sinistra con il portafoglio e certo non disposte a “sporcarsi” con un social network “controverso”.

Tuttavia, se Parler fosse scelto da Trump o in aggiunta a Twitter o addirittura in sua sostituzione, questo potrebbe essere un “game changer” non da poco.

Il rischio di un flop certamente c’è, ma c’è anche ben poco da perdere. C’è invece molto da guadagnare da un mercato dei social network più competitivo che obblighi i grandi player a una maggiore accountability.

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