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Parte male Di Maio su sharing e gig economy. Se levi i “lavoretti”, non avrai un “lavorone”

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Resta solo disoccupazione o lavoro nero

Se la missione di Luigi Di Maio era quella di recuperare terreno rispetto al protagonismo di Matteo Salvini, la partenza non è stata affatto buona.

Per carità, nulla è ancora compromesso, ma l’idea di trasformare in lavoratori dipendenti i riders di Foodora o Deliveroo, o comunque di imporre una sorta di gabbia contrattuale ai ragazzi (e alle persone di mezza età) che integrano le loro entrate collaborando con le società di sharing economy non solo è sbagliata: è proprio una follia.

Se levi di mezzo i “lavoretti”, non avrai un “lavorone”: ma solo l’alternativa tra disoccupazione e lavoro nero.

Ma il dramma è che gran parte della politica non capisce di cosa si stia parlando, e applica schemi novecenteschi (o ottocenteschi) a realtà nuove.

Stiamo parlando dell’”economia delle app“, della sharing economy. Tutto nasce, come si sa, da un colpo di genio di Steve Jobs e dal suo i-Phone. Prima, tutti avevamo un telefonino, ma non lo amavamo: lo usavamo “banalmente” solo per telefonare e inviare sms. Jobs, con spirito visionario, dice nel 2007: “Tutti hanno un cellulare, ma io voglio qualcosa che la gente ami”. Nasce così un oggetto di culto, pieno di opportunità, di “esperienze” visive e tattili, come sappiamo. Ma l’ulteriore colpo di genio avviene appena un anno dopo, quando Jobs apre il mercato delle app, un meraviglioso “marketplace” per scaricare le applicazioni. Nel 2009, le app disponibili erano appena 38 mila, nel 2015 sono arrivate a circa 4 milioni!

Quella genialata di Jobs ha consentito di moltiplicare opportunità di interscambio e di creazione di ricchezza in modo ultrasemplice, intercettando esigenze di vita normale (quante volte ci è capitato di pensare: “quell’app avrei potuto crearla anch’io…”), a costi bassissimi, e con un processo di miglioramento incessante grazie al contributo degli utenti.

Ora il fatto nuovo è che c’è stato un ulteriore salto (del quale ovviamente la politica “ufficiale” fatica ad accorgersi): non si tratta più di un mercato di nicchia, ma di un fenomeno enorme. Il volume d’affari nel mondo della sharing economy era nel 2008 di 1,9 miliardi di dollari: appena 7 anni dopo, nel 2015, è arrivato a 120 miliardi di dollari.

Tutti conosciamo Uber, Airbnb, Deliveroo, e decine di altre sigle divenute ormai brand irrinunciabili e percepiti come dinamici, in ulteriore crescita di affermazione e successo. I vantaggi di questo genere di servizi sono ormai chiari a chiunque abbia occhi per vedere: un’ulteriore offerta e quindi un arricchimento delle opportunità di scelta per il consumatore, la valorizzazione del fattore-tempo (azzerando le perdite di tempo inevitabilmente connesse al modo tradizionale di fare le cose), una estrema personalizzazione e possibilità di decisione individuale, e soprattutto la libertà di fare quasi tutto dal tuo smartphone. Per sovrammercato, tutto ciò è ora anche percepito come “cool”, come una “figata”, direbbero i più giovani: una forma di lusso accessibile a tutti, una cosa utile e pure di moda.

Si badi bene. Una “figata”, ma non una roba per “fighetti” fuori dal mondo. Le cifre del giro d’affari spiegano già benissimo che si tratta di un’opportunità colossale. Ma (si veda il bel libro di Matteo Sarzana, “App Economy”, che qui abbiamo recensito mesi fa) l’impressione si fa enorme quando esaminiamo le proiezioni americane anche in termini di creazione di posti di lavoro. Per il 2020 (cioè appena tra 3 anni), la stima negli Usa è quella di un 40 per cento di lavori indipendenti, gig-jobs, lavoretti, lavori legati alle app e alla sharing economy. E non lavori necessariamente sottopagati, anzi: ma con una buona possibilità, anche in relazione al tempo dedicato e al proprio impegno, di raggiungere livelli medi e medio-alti di reddito, o (anche con un impegno limitato) di poter quanto meno integrare bene un proprio eventuale altro reddito.

E in Italia? Le opportunità sarebbero letteralmente formidabili. 30 milioni di nostri connazionali hanno in mano uno smartphone, con un tempo giornaliero di uso di ben 75 minuti. Che altro serve per capire che il futuro dell’economia è lì, nell’offrire (attraverso quello strumento) servizi che mettano al centro il consumatore e la sua voglia di avere qualità alta, prezzi bassi e risparmio di tempo?

Per parte mia, aggiungo quattro osservazioni.
1. Viviamo in tempi di estrema personalizzazione. A me la cosa ovviamente piace, anzi strapiace. Per decenni, i nostri padri, e per qualche anno, da ragazzi, noi stessi, oggi invece più che quarantenni, eravamo abituati a scelte molto essenziali e ristrette. Oggi invece è naturale per il consumatore desiderare (anzi: pretendere!) di avere esattamente quello che gli piace, quando preferisce, e nella forma/formato/modalità più comoda. Se non si comprende questo, si resta prigionieri di meccanismi che non esistono più.

2. Come alcune personalità lungimiranti (ne cito due: il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa e Lorenzo Montanari, di Americans for tax reform) si sforzano meritoriamente di spiegare e ribadire, l’Italia (con l’80 per cento di proprietari di case, un altissimo numero di proprietari di auto, eccetera) sarebbe il luogo naturale per l’esplosione di fenomeni di questo tipo. Di più: in tempi di crisi economica, questa sarebbe la via maestra per far crescere il reddito di singoli, famiglie, giovani, pensionati, e così via, dando una spettacolare risposta liberale e di mercato a un problema sociale.

3. Aggiungo una sfumatura culturale che trovo deliziosa. E’ uno dei pochissimi casi (forse l’unico!) in cui una realtà liberista e di mercato risulta immediatamente comprensibile anche alle persone di sinistra e anche ai più giovani, ai “millennials”. Non occorre aver letto Hayek e Friedman per capire che la tua casa e la tua macchina sono – appunto – tue! E anche un teenager considera naturale la possibilità di ricevere (e offrire!) servizi di questo tipo, attraverso il proprio smartphone.

4. A maggior ragione non va fatto alcun intervento normativo e legislativo. Per carità! Che il buon Dio (o qualche laica divinità liberale e pro-mercato…) ci risparmi questa eventualità. Lasciamo invece che il cavallo sia libero di correre e di galoppare finché può, senza interventi legislativi che (temo) peggiorerebbero la situazione sia dal punto di vista fiscale che da quello burocratico. L’antica battuta di Reagan sulla mentalità degli statalisti andrebbe stampata nelle Aule di Montecitorio e Palazzo Madama, oltre che in tutti gli uffici pubblici italiani. Per gli statalisti anti-mercato, ammoniva Reagan, valgono tre regole: “Se qualcosa si muove, tassalo; se si muove ancora, regolamentalo; se non si muove più, sussidialo”. E’ esattamente il contrario di ciò che dobbiamo fare.

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