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Partita doppia su Navalny: in gioco la tenuta del sistema Putin e la leadership europea della Merkel

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È improbabile che Angela Merkel non avesse calcolato le possibili conseguenze dell’arrivo a Berlino di Alexey Navalny in coma. Eppure il caso dell’avvelenamento del più celebre oppositore di Putin rischia di mettere alla prova la sua leadership ben più di quanto si potesse immaginare. Quando nel pomeriggio di mercoledì il laboratorio militare a cui erano state affidate le analisi ha confermato la presenza nel corpo della vittima di un agente nervino del gruppo Novichok, la risposta del governo tedesco è stata contundente: “Si è trattato di un tentato omicidio con una sostanza chimica, che solleva serie domande a cui solo il governo russo può dare risposta”, ha dichiarato una Merkel visibilmente scossa. Le ha fatto eco il ministro degli esteri Heiko Maas, che ha chiesto subito all’Unione europea “una reazione adeguata alla gravità dei fatti”. I tedeschi per il momento, al di là delle inevitabili dichiarazioni di circostanza, hanno però evitato accuratamente di dire cosa pensano di fare loro, che delle relazioni Europa-Russia sono i veri depositari. Su qualsiasi decisione pende un’ipoteca da cui difficilmente potranno liberarsi, nonostante le pressioni provenienti da Washington, quel Nord Stream 2 a cui la cancelliera si era riferita con un certo tempismo proprio a fine agosto, svincolandone il completamento dalle vicende geopolitiche del continente: “Il caso Navalny e l’assassinio di un ribelle ceceno a Berlino devono mantenersi separati dal Nord Stream 2, che è un progetto economico privato e come tale dev’essere portato avanti”. Un argomento in verità piuttosto pretestuoso dal momento che la società incaricata dell’esecuzione del gasdotto è di proprietà esclusiva di Gazprom, controllata direttamente dal governo russo: si tratta di un accordo fra Stati quindi, non fra privati, e come tale dotato di un innegabile significato politico.

Ma torniamo all’avvelenamento. Quando si parla di Novichok ci si riferisce ad un’arma chimica potenzialmente letale, messa a punto nelle sue differenti varianti prima nei laboratori sovietici e poi in quelli russi a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso. Mai usata in combattimento, è ritenuta invece la sostanza dell’attentato commesso dai servizi segreti russi contro l’ex agente doppio Sergei Skripal e sua figlia Yulia, nella località inglese di Salisbury più di due anni fa. Se non è una pistola fumante poco ci manca, dal momento che questo genere di veleni è alla portata soltanto di soggetti legati agli ambienti militari o agli apparati di sicurezza dello Stato. È per questo che, appena diffusasi la notizia, il Novichok è stato quasi unanimemente interpretato come la firma del Cremlino sull’attacco a Navalny. Il contrattacco di Mosca e dei siti filo-russi non si è fatto attendere: pochi minuti dopo il comunicato ufficiale del governo tedesco, la rivista online Sputnik pubblicava una dichiarazione di Leonid Rink, identificato come uno degli artefici del Novichok, secondo cui i sintomi presentati da Navalny non sarebbero compatibili con quelli della sostanza indicata. La difesa ufficiale della Russia consiste fondamentalmente in una domanda, sempre la stessa: dove sono le prove del nostro coinvolgimento? Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, è arrivato perfino ad insinuare che l’avvelenamento potrebbe essere avvenuto in territorio tedesco affermando che “fino a quando si trovava in Russia non c’era traccia di veleno nel suo corpo”. Se è vero che i medici russi hanno subito somministrato atropina al paziente – confermano fonti ufficiali – è stato solo per precauzione, dal momento che Navalny avrebbe sofferto un improvviso shock glicemico di origine naturale che gli ha provocato il coma. Come ha identificato il laboratorio tedesco l’agente chimico? In che condizioni è partito Navalny da Omsk alla volta di Berlino? Perché i medici tedeschi hanno rifiutato l’iniziale offerta di assistenza da parte dei colleghi russi che lo avevano trattato al principio? Sono le questioni attorno a cui si muoverà la macchina del diniego russo nei prossimi giorni. Ormai, però, il caso Navalny ha assunto una dimensione internazionale che rischia di far saltare i sempre più delicati equilibri del potere moscovita, già messi a dura prova dalla crisi bielorussa.

Ma perché Putin avrebbe deciso, proprio adesso, di eliminare fisicamente un potenziale avversario che politicamente aveva già tolto di mezzo per via giudiziaria e, in maniera definitiva, con l’ultima riforma costituzionale (che proibisce la candidatura di chi abbia vissuto all’estero)? I cremlinologi si interrogano e, in generale, sono scettici sulla possibilità che il presidente o il suo entourage più stretto abbiano ordinato l’avvelenamento, adducendo che una decisione di questo genere arrecherebbe molti più problemi al capo dello Stato di quanti contribuirebbe a risolverne. Se, però, prima del Novichok si poteva pensare che altri soggetti avrebbero potuto avere interesse a regolare i conti con Navalny, per fini personali o per fare “un favore” al presidente, dopo la conferma dell’agente nervino il cerchio attorno al Cremlino si stringe (Nemtsov, Politkovskaya, Litvinenko, Yuschenko sono i precedenti più illustri). Vero o no, da mercoledì è più difficile per Putin convincere la comunità internazionale della sua innocenza. Sempre che sia interessato a farlo.

In realtà dal 2014, anno dell’annessione della Crimea e della guerra per procura nel Donbass, proprio nel momento in cui le velleità espansive della Russia sembravano manifestarsi nella loro pienezza, il sistema Putin è entrato in una fase involutiva, in cui il bene supremo della stabilità interna (leggasi conservazione del potere) si è trasformato in una vera e propria ideologia di stato. Anche le incursioni politiche e belliche dirette a evitare lo scivolamento di Kiev in orbita europea erano rivolte principalmente a un’opinione pubblica che cercava e trovava nell’uomo forte che l’aveva riportata da protagonista sullo scenario internazionale una conferma della propria rilevanza. Oggi questa tendenza accentratrice e solipsistica si è accentuata fino al punto da essere fissata in una riforma costituzionale, approvata con il solito plebiscito, che blinda il mandato di Putin ben oltre la scadenza naturale del 2024.

Nell’analizzare il cui prodest dell’avvelenamento di Navalny si deve tenere conto di questo ripiegamento del regime (possiamo ormai chiamarlo così) su se stesso: più che di salvaguardare un’immagine internazionale già gravemente compromessa, Putin sembra preoccupato di consolidare la propria stretta autoritaria sulla società russa. Che sia o no il mandante dell’attentato, il caso Navalny serve al presidente per segnalare alla sua popolazione i confini all’interno dei quali può muoversi e i limiti che non possono essere superati. Il putinismo nega il proprio coinvolgimento davanti alla comunità internazionale più per dovere che per convinzione, oltre che per prepararsi a interpretare – sempre in chiave interna – il ruolo di vittima in caso di ulteriori sanzioni; ma allo stesso tempo non condanna né si impegna a far luce sui fatti e non nasconde che l’uscita di scena di Navalny è funzionale al suo progetto autocratico: dell’attivista anti-corruzione ufficialmente non si può nemmeno pronunciare il nome. I russi devono sapere come finiscono i nemici del Cremlino: in coma, in un letto d’ospedale. La vera questione allora, in una presidenza che più si perpetua più rischia di assomigliare a un insuccesso (stagnazione economica, relazioni conflittuali con quasi tutte le nazioni dell’ex spazio sovietico, riduzione al ruolo di potenza regionale, crescente dipendenza dalla Cina), è in che misura e per quanto tempo i cittadini siano ancora disposti a rispettare il patto di non aggressione stipulato con il potere ormai vent’anni fa, al prezzo di un crescente isolamento e allontanamento dall’Occidente e con il risveglio bielorusso alle porte di casa. Un risveglio che Navalny ha seguito e documentato in dettaglio, finché ha potuto, sul suo canale di YouTube.

Il ribaltamento della posizione tedesca è evidente, a questo punto: chiedere alla Russia di dare risposta alle domande dell’Occidente è un errore di ragionamento, un non sequitur. Putin ha già scelto la strada che il suo Paese dovrà percorrere nei prossimi anni, e non è precisamente un cammino che porta in Europa. Il suo piano di annessione della Bielorussia, che si sta sgranando sotto gli occhi perplessi di una dirigenza comunitaria incredula e incapace di reagire, ne è un’ulteriore conferma: per Mosca Lukashenko è il passato, il futuro è Putin che si sta di fatto trasformando nella sua controfigura. È lo scivolamento progressivo della Russia verso la categoria degli stati falliti che deve trovare, al contrario di quanto dice Merkel, una risposta da parte dell’Unione europea in generale e di Berlino in particolare: cosa si intende fare davvero per fermare questa deriva?
Sul corpo dimezzato di Navalny al centro dell’Europa politica si gioca da oggi, suo malgrado, una doppia partita: da una parte quella sulla tenuta del sistema Putin, i cui funzionari non potranno mettere piede oltre l’Elba senza sentirsi chiedere del Novichok ma che, allo stesso tempo, è sopravvissuto praticamente indenne a prove ben più decisive di questa, compresa una batteria di sanzioni che le stesse imprese tedesche non hanno avuto difficoltà ad aggirare; dall’altra, quella sulla proverbiale ipocrisia europea, che da mercoledì pomeriggio Angela Merkel ha un’occasione irripetibile di smentire una volta per tutte.

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