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Passeggiate romane

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Quando, per le strade della mia povera Roma ormai devastata, vedo queste coppiette islamiche; lui davanti con la sua barba da cagnaccio immusonito, lei dietro come una segregata, il viso imbacuccato sotto un ammasso di veli, provo un orrore indicibile. Soprattutto perché ormai il resto dell’umanità sembra abituata a questa barbarie ostentata con protervia e arroganza.
(Poi non vi dico quando nei vicoli intorno a Campo de’ Fiori si sentono le urla in arabo, o in indiano, in bengalese, dei nuovi garzoni, sguatteri, camerieri e il romanesco tipico di un tempo non c’è più, evaporato come i pischelli lavoratori sotto i colpi di un’ennesima mutazione antropologica, stavolta non endogena ma indotta coercitivamente).

Certo, immagino invece l’effetto sublime che deve fare ai progettisti del multiculturalismo il passeggiare fra i vicoli invasi dalla mondezza, i topi, l’asfalto ormai trasformatosi in una giungla urbana di dune e dossi. Prendete via dei Giubbonari, che collega Campo de’ Fiori a via Arenula e, più in là, al ghetto. È tutto un susseguirsi di bancarelle che sostano (legalmente?) di fronte alle vetrine dei negozi, oscurandole, che vendono il loro ciarpame di pessima qualità. Adesso, poi, si sono aggiunti, giusto in prossimità di piazza Cairoli, gli immancabili venditori africani di braccialetti che, per rendersi più simpatici, attirano la clientela con donnone simil amazzoni che ti sorridono con le loro tettone, e boccone, che sembrano uscite da un’avventata operazione di chirurgia estetica.

Dicevo, m’immagino i dirigenti d’azienda, della Rai, di Mediaset, dei grandi giornali, i politici incipriati di buonismo, i giornalistini innamorati dell’esotico, i maitre à penser autoriali che elargiscono le patenti di anti-razzismo, quelli che abitano nelle lussuose ville sull’Aurelia, a Monte Mario, nei bastioni inavvicinabili della Cassia, che, con aria soddisfatta, ammirano la loro opera di “inclusione”. Inclusione ormai è il nuovo vocabolo divino. La tassa sulla e della morale quotidiana. Guai a non lavorare, tutti assieme, per l’inclusione. E però, a forza di includere, qualcun altro viene escluso. È una legge della fisica.

Eppure, io non mi rassegno. Non mi rassegno all’idea che il popolo romano possa essere sostituito da un altro che romano non è. Non mi rassegno all’idea che a Trastevere, mentre ammiriamo la chiesa di Santa Maria, o ci perdiamo fra le viuzze che un tempo furono il regno di Trilussa, poco più in là, un avamposto ‘inclusivo’ come la comunità di Sant’Egidio lavori quotidianamente per modificare, diciamo così, le caratteristiche etniche di una società; ovviamente a fin di bene e inclusione. Non mi rassegno all’idea che un intero quartiere, l’Esquilino, sia caduto in mani straniere, trasformandosi in una Calcutta maleodorante (mi perdonino i puristi dell’alimentazione inclusiva, ma a me il cumino, la curcuma e le spezie piccanti fanno venire l’acidità di stomaco e le mie narici si arricciano a tal punto che ho bisogno di ossigeno come un astronauta alla deriva). Non mi rassegno all’idea che a san Lorenzo, bastione della romanità e un tempo bandiera della Resistenza, oggi bivacchino i nipotini assetati di sangue di quelle carogne che hanno stuprato le Ciociare nostrane saccheggiandone le campagne. Non mi rassegno all’idea che, alla stazione Termini, le zingare si siano auto-assunte alle biglietterie automatiche, che alla criminalità italica (quella che scioglie i bambini nell’acido per capirci), per pari opportunità, diciamo, abbiamo aggiunto quella allogena. E che fra questi ultimi si potrebbero nascondere degustatori di carne umana; di carne indifesa, e magari giovane, femmina e con disturbi della personalità.

Non mi rassegno, soprattutto, all’idea che la mia città si stata data in mano a dei furbetti che governano con l’ambiguità dei democristiani navigati ma senza la loro rotta. Che i romani, polli allo spiedo anch’essi, oggi sostituiti con il montarozzo maleodorante di Kebab, siano finiti nella graticola di un santone milanese, una bruttissima copia di Ron Hubbard, che almeno aveva un importante curriculum di autore Sci-fi (su tutti “Battlefield Earth” che il guru milanese non avrebbe potuto scrivere nemmeno sotto dettatura ipnotica).

Non mi rassegno, no. E continuo a passeggiare. A immaginarmi Audrey Hepburn e Gregory Peck sulla vespetta. I ragazzi della Roma proletaria, garzoni, camerieri, facchini, figli di immigrati calabresi, abruzzesi, campani, che, romanizzati entusiasticamente, fischiavano alle ragazze, le inseguivano, “glie toccavano er culo”, magari, e di notte, per sbarcare il lunario, si facevano fare un pompino dai maschi sui pratoni della Casilina. Mentre oggi, i nuovi proletari, i nuovi ‘maschi alfa’ pregano col culo all’aria otto volte al giorno, nascondono le loro donne, non guardano le nostre se non per disprezzarle e non si fanno fare i pompini sui campi intorno a Tor Pignattara (che hanno colonizzato), anche se ne avrebbero una voglia matta.