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Il Pd che persevera negli errori: la “sinistra-sinistra” di Zingaretti e il fascismo degli antifascisti

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Ora si può dire che l’antifascismo ha avuto ragione, non nei risultati elettorali che parlano in tutt’altro senso: un Salvini travolgente, con a fargli da “secondo forno” un Berlusconi che galleggia e una Meloni che aumenta. Di contro il Pd, con la sua santa alleanza, al massimo i suoi voti con quelli di LeU; mentre il suo potenziale alleato di domani quasi si dimezza. Dico che ha avuto ragione, perché aveva previsto che l’ondata nera stava per sommergerci, l’aveva gridato ai quattro venti, l’aveva accompagnato con suono di trombe e tamburi; e ora chi non l’aveva creduto è servito di barba e capelli. Il vero è che non si è mai fatto i conti col fascismo, arrivando addirittura a sostenere che Mussolini avrebbe realizzato delle cose buone; quali mai, a leggere i bilanci predisposti da autori ben informati e pubblicizzati a dovere? Ora ai più puri rimane solo da scegliere fra andare in esilio o in montagna, per l’intanto cambiando ogni notte il tetto sotto cui dormire; mentre gli altri faranno loro l’incitamento a “resistere, resistere, resistere”, con una resistenza passiva a tutto campo. Se non si fosse rivelato un tragico errore, si potrebbe pensare ad un secondo Aventino, per segnare il trauma costituzionale della fine del parlamentarismo, con un regime populista legittimato solo dal voto, che come si è detto e ripetuto a iosa negli ultimi mesi, è pericoloso, perché anche l’ascesa di Mussolini e di Hitler sono state accompagnate da un crescente consenso elettorale.

Certo ci deve essere una inclinazione autoritaria che si trasmette dalle generazioni del ventennio a quelle successive, qualcosa che fa parte del genoma nazionale, sicché basta un bravo pifferaio per risvegliarla e plagiarla, conducendola ignara e plaudente ad una fine ignominiosa. Una notazione un po’ razzista, ma quando c’è, non resta che dirlo ad alta voce, perché esiste sempre la possibilità di un ravvedimento operoso. Comunque il Pd ha fallito, non per aver lesinato parole di sinistra, come avrebbe richiesto Moretti; ma per essersi destreggiato in un autentico gioco delle parti, come ben testimoniato nel presentare nelle circoscrizioni del Nord, due capolista completamente dissonanti, come il “destro” Calenda e il “sinistro” Pisapia.

Questo è più o meno lo sfogo di un mio amico, quasi coetaneo, che con alterni sentimenti di euforia e di delusione, ha continuato a votare sempre lo stesso partito, fedele nonostante il cambio di nome e di referente: lo ha fatto, nella prima gioventù, a favore di un Pci che viveva nel mito dell’Unione Sovietica, mobilitando la piazza contro la Nato e il Mercato comune; lo fa ora, nella tarda vecchiaia, a favore dei Ds che non perdono occasione per mettere sotto accusa la Russia, fautori dell’Alleanza atlantica e dell’Europa. Troppo, di grazia, gli ho risposto, perché, invece di inventarsi una specie di sindrome di cui sarebbe ammalata l’intera penisola, non fosse altro perché le stagioni elettorali si sono alternate dai decenni ‘90 in poi, sarebbe miglior cosa ragionare sugli errori, dato che, come sul campo di calcio, vince spesso chi approfitta degli sbagli altrui.

Ora, gli ho detto, amico mio, mi limiterò ad un paio di osservazioni, circa l’errore strategico e tattico del Pd, che, peraltro non può essere ritenuto l’unico responsabile, anche se si deve dire che questo ruolo da ultimo se l’è tirato addosso da solo, ergendosi come l’unico difensore del sistema democratico. L’errore strategico è stato quello di un radicale spostamento a sinistra, quale segnato dal rientro dei fuorusciti di LeU, scoprendo del tutto il centro, senza di cui non è possibile vincere. Zingaretti parla come di un suo successo personale, del nuovo “centro-sinistra” da lui realizzato, ma, a guardarlo bene, anche solo di profilo, non appare neppure un “sinistra-centro”, ma solo e unicamente una “sinistra-sinistra”.

Sbaglierò, ma il partito storico della sinistra, ha solo due scelte. La prima è quella di spostarsi al centro, come ha cercato di fare Renzi, con un indubbio successo, certo solo temporaneo, ma è difficile dire quanto dovuto a lui e quanto al dissenso maturato all’interno del partito, con l’accompagnamento quasi corale dei mass-media autoproclamatisi democratici e progressisti, i quali sembrano sopravvivere meglio quanto trattano il potere, chiunque lo eserciti, come un bersaglio da fiera. Certo, Renzi ha perso un referendum che aveva eccessivamente personalizzato, sì da essere costretto a dimettersi, ma non è mai successo nella storia del più grande partito di sinistra di raggiungere il 40 per cento. Da quel voto non si è tratta la lezione giusta, pensando che rispondesse solo ad un ambiguo bisogno del Paese di un uomo solo al comando, come appunto lo stesso Renzi faceva di tutto per far credere: insomma si trattasse sempre e solo del bisogno di un leader, a prescindere dal messaggio politico, così come sarebbe successo con Berlusconi.

La seconda scelta, è stata esorcizzata dalla idea di un Ulivo come sommatoria di sigle, senza nessuna previa verifica della loro rappresentatività, tanto che in vigenza del Mattarellum, dove avrebbero potuto farsi delle preventive selezioni nei collegi, la lista venne decisa a Roma e imposta alla periferia, per tenere in piedi, con una ripartizione oculata, una coalizione fatta a tavolino. Certo si vinse e si tornò a vincere sempre con Prodi, ma in entrambe le occasioni il suo governo durò solo due anni, segno di una fragilità destinata a rivelarsi col tempo. Ma quale è stata questa seconda scelta sbagliata? È stata quella di non lasciare sopravvivere una autentica formazione di centro, con una sua autonomia, che sola avrebbe potuto rendere veritiera l’esistenza di un centro-sinistra, costruito sulla mediazione di due programmi, con a destinatari due elettorati contigui ma diversi.

Se si passa dall’errore strategico all’errore tattico, quest’ultimo è stato di aderire anima e corpo a quello che chiamerei il fascismo dell’antifascismo, caratterizzato dal tentativo ossessivo fino all’isterismo di impedire a CasaPound e soprattutto a Salvini di parlare, inseguendo quest’ultimo piazza per piazza, con manifestazioni, preventive e contemporanee, più o meno assordanti e manesche, sempre in testa quella vestale dell’antifascismo costituita dall’Anpi, sopravvissuta alla progressiva sparizione della base partigiana che la legittimava. La campagna è stata seguita, accompagnata, enfatizzata da quelli che ho chiamato i mass-media democratici e progressisti che non hanno mancato di incitare i 5Stelle a rialzare la testa, con una prospettiva di un loro recupero in una maggioranza col Pd; ciò nonostante l’imbarazzata smentita di Zingaretti e compagni, impegnati a difendersi dall’incursione del partito di Di Maio nella loro area elettorale. Ma soprattutto non ne hanno perdonata una a Salvini, fino al patetico di far espellere dal Salone di Torino una casa editrice, rea di essere di CasaPound e di avergli pubblicato una intervista; anzi ben oltre, fino al ridicolo di additarlo alla pubblica infamia, per aver parlato ad una folla di sostenitori rimasti nella piazza antistante sotto la pioggia, da un balcone da cui si era affacciato niente poco di meno che il Duce.

Tutto questo può aver spaventato un elettorato moderato, stanco sì da una accresciuta divergenza fra i due leader “populisti”, ma soprattutto della continua esaltazione di tale divergenza, fino a rendere, chi la conduceva con una quotidiana e partigiana insistenza, ancor più indisponente. Non bastano le sfilate, le lenzuolate, le campagne di stampa, le schermate televisive, per vincere le elezioni; quando il rumore diventa lacerante, il cittadino anonimo si isola nel proprio quotidiano, diventando indifferente o reattivo in senso contrario.

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