Negli ultimi giorni un numero record di aerei da guerra della Repubblica Popolare nella zona di difesa di Taiwan, che Pechino considera una sua provincia. L’amministrazione Biden è davvero pronta a difendere l’isola da una aggressione da parte della Cina comunista?
La possibilità che Taiwan venga invasa dall’esercito della Repubblica Popolare Cinese, e quindi annessa con la forza alla “madre patria”, cessa di essere un’ipotesi fantascientifica. Ne abbiamo conferma dal comportamento sempre più aggressivo di Pechino negli ultimi tempi.
Agli inizi di ottobre, e per parecchi giorni, circa 150 aerei da guerra cinesi hanno volato intorno all’isola in ondate successive. Pur non spingendosi oltre il limite delle 12 miglia nautiche dalla costa – limite che Taipei considera il proprio spazio aereo sovrano – sono tuttavia penetrati più volte nella zona di difesa e identificazione aerea dell’isola.
Il problema è che tale zona vale ufficialmente solo per il governo di Taiwan. È noto, infatti, che la Repubblica Popolare è riuscita a isolare quasi completamente, sul piano internazionale, Taiwan, che da parte sua continua orgogliosamente ad autodefinirsi “Repubblica di Cina”.
Ma la Repubblica Popolare, dopo lo storico incontro del 1972 tra Mao Zedong e Richard Nixon, con la partecipazione di Henry Kissinger da un lato e di Zhou Enlai dall’altro, è riuscita a imporre il principio che esiste “una sola Cina”. Del resto tanto Mao quanto Zhou chiarirono subito agli ospiti americani che nessuna deroga a tale principio sarebbe stata ammessa.
Di conseguenza solo una manciata di Stati poco importanti ora riconoscono l’indipendenza di Taiwan. E, a tale proposito, mette conto ricordare il coraggio della piccola Lituania, che ha aperto a Taipei un ufficio di rappresentanza ufficiale, senza escludere in futuro il pieno riconoscimento diplomatico. Attirandosi ovviamente l’immediata minaccia di ritorsioni economiche e commerciali da parte della leadership cinese.
Il vero problema di Taiwan, tuttavia, è l’atteggiamento assai ambiguo degli Stati Uniti al riguardo. Washington infatti ha troncato le relazioni diplomatiche con la Cina nazionalista dopo la visita di Nixon a Pechino, pur impegnandosi a difenderla in caso di aggressione esterna. Ma non esiste un vero e proprio trattato che garantisca tale impegno.
I taiwanesi, insomma, devono fidarsi sulla parola, e ciò li lascia tutt’altro che tranquilli. Anche perché vedono gli aerei da guerra cinesi scorrazzare indisturbati sulle loro teste in pratica ogni giorno. Si tratta di una vera e propria guerra di nervi, nella quale i sistemi di difesa dell’isola vengono messi a dura prova su base quotidiana.
A fronte di questa situazione gli Stati Uniti hanno aumentato la fornitura di armamenti sofisticati, e si sono impegnati ad addestrare in maniera adeguata l’esercito taiwanese affinché possa respingere l’eventuale invasione.
Facile capire, tuttavia, che da sola l’isola – peraltro vicinissima alla costa della Cina continentale – non è assolutamente in grado di bloccare l’eventuale invasione a causa dell’enorme divario tra le forze in campo. In quel caso, l’unica possibilità di salvezza risiede in un intervento militare diretto degli Usa, come per esempio avvenne in Corea negli anni ’50 del secolo scorso.
Vista l’aria che tira, tuttavia, è legittimo chiedersi se Joe Biden sarebbe veramente disposto a inviare truppe, navi e aerei in soccorso del fedele alleato. Molti ne dubitano, e a tale proposito la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha scritto su Foreign Affairs che, se l’isola cadesse, “ci sarebbero conseguenze catastrofiche per la pace nella nostra regione e per tutto il sistema di alleanze democratiche”.
Pechino ha risposto con grande cinismo attraverso il Global Times, quotidiano in lingua inglese del Partito comunista, sostenendo che “la grande parata militare della Festa della Repubblica Popolare, il primo ottobre, invece che in Piazza Tienanmen si è svolta sui cieli di Taiwan”. A riprova del fatto che l’espansionismo aggressivo della Cina comunista non conosce ormai più limiti.
Tra l’altro, è pure opportuno rammentare che negli ambienti politici ed economici americani esiste una lobby del tutto contraria ad atti di forza nei confronti della Repubblica Popolare. I membri di tale lobby sono ben presenti al Congresso Usa, e non intendono danneggiare i fiorenti traffici commerciali tra le economie delle due superpotenze, notoriamente interconnesse, per l’appunto, sul piano economico e commerciale.
Proprio per questo Biden cerca il dialogo con Xi Jinping, cosciente del fatto che un intervento militare diretto nello stretto di Formosa non verrebbe visto con favore da gran parte dell’opinione pubblica americana. E tenta, al contempo, di coinvolgere giapponesi, britannici e australiani nel contenzioso con Pechino.
Taiwan è dunque sacrificabile in nome dei traffici commerciali? Solo pochi anni fa tutti avrebbero risposto con un chiaro “no”. Adesso la situazione è cambiata, altro segno che, nel mondo, l’influenza di quello che un tempo si chiamava “Occidente” è calata in modo drastico.