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Pechino mostra i muscoli testando supermissili, ma ha seri problemi economici

Zuppa di Porro: rassegna stampa del 12 marzo 2020

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La notizia che la Cina dispone di missili ipersonici sembra aver sorpreso gli Stati Uniti, ma non si sa fino a che punto tale sorpresa sia reale. È un dato di fatto che la Repubblica Popolare è riuscita a smantellare le reti spionistiche occidentali, ragion per cui le azioni di intelligence sono ora affidate ai satelliti e alla sorveglianza spaziale. Con tutti i limiti che ciò comporta, giacché anche nella nostra epoca supertecnologica gli 007 sul campo continuano a svolgere un ruolo essenziale.

Mette conto notare, a questo proposito, che c’è una notevole asimmetria tra Cina e Occidente in campo spionistico. I cinesi riescono ad infiltrare spie sotto copertura culturale o commerciale nei principali Paesi occidentali, per esempio grazie alla rete dei “Centri Confucio” assai attivi nelle università americane ed europee. Pur sottoposti a maggiori controlli rispetto al passato, essi continuano ad essere operativi rappresentando per Pechino preziose fonti di informazione.

È noto, inoltre, che Pechino negli ultimi due decenni ha aumentato in maniera rilevante il budget destinato alle forze armate, e Xi Jinping ha affermato esplicitamente che la Repubblica Popolare intende dotarsi nel più breve tempo possibile di un apparato bellico in grado di competere con quello americano. Eppure continuano a circolare voci pessimistiche circa lo stato reale dell’economia cinese. A fare da detonatore è il settore immobiliare che rischia una crisi strutturale dopo la scoperta che il gigante delle costruzioni Evergrande è sommerso da un debito che supera i 300 milioni di dollari.

Il problema è che ci sono altri colossi che si trovano in condizioni simili. Per esempio Jumbo Fortune non ha rimborsato debiti per 260 milioni; Modern Land ha chiesto agli investitori di posticipare di tre mesi un’obbligazione in scadenza da 250 milioni di dollari; Sinic Holdings non potrà rimborsare un “bond” da 250 milioni che scadrà nei prossimi giorni, e in condizioni simili si trova pure Xinyuan Real Estate.

Sembra insomma che la bolla immobiliare stia davvero per scoppiare e, a tale proposito, giova rammentare che nel mattone è concentrato ben il 29 per cento del Pil del Dragone. Il settore immobiliare, inoltre, rappresenta circa il 62 per cento della ricchezza delle famiglie cinesi. Di qui l’allarme diffuso che si percepisce anche sui social network cinesi (pur controllatissimi dalla autorità).

Ed è ovvio che sia così, giacché la casa rappresenta per tutti il patrimonio principale, e in molti casi addirittura l’unico. La bolla immobiliare rischia dunque di abbassare il tenore di vita dei cittadini, abituati a non preoccuparsi vista la crescita costante del Pil, e dell’economia in generale, negli ultimi decenni.

A fronte di una situazione tanto drammatica, governo e Partito comunista cercano di lanciare segnali rassicuranti. Xi Jinping ha affidato alla People’s Bank of China il compito – invero assai arduo – di convincere i mercati che i rischi dello scoppio della bolla immobiliare sono minimi. Per quanto riguarda Evergrande, la gigantesca azienda all’origine dei guai, egli sostiene che la sua crisi è gestibile e che il settore immobiliare, nel suo complesso, è sano.

Ciò non basta, tuttavia, a rassicurare i mercati internazionali e, soprattutto, i cittadini che temono l’avvento di una crisi che segnerebbe la fine della suddetta crescita economica, nonché il deterioramento del potere d’acquisto delle famiglie.

Non un segnale rassicurante nemmeno la chiusura a partire dalla fine di ottobre, per mancanza di redditività, annunciata pochi giorni fa da uno dei cantieri navali di medie dimensioni cinesi, Tianjin Xingang Ship Heavy Industry.

Come se non bastasse, la Repubblica Popolare si trova anche ad affrontare una crisi energetica dovuta alle disastrose inondazioni che hanno devastato la provincia dello Shanxi, con piogge superiori di quattro volte alla media mensile. Lo Shanxi, da solo, contribuisce per un terzo al fabbisogno energetico del Paese grazie alle sue 682 miniere di carbone. E occorre rammentare che Pechino, pur aderendo agli appelli internazionali volti a contenere i mutamenti climatici, finora si è ben guardata dal rinunciare alle fonti di energia più tradizionali e più inquinanti.

Si rischia, pertanto, un inverno al freddo, fatto cui i cinesi non erano più abituati. E a rischio è pure il “patto sociale” non scritto mediante il quale i cittadini rinunciano ad alcune libertà politiche di base in cambio della crescita economica.

Si aggiunga che la pandemia dovuta al Covid-19 non è stato affatto superata, a dispetto di quanto proclamano le autorità, e il quadro è completo.

Naturalmente in un qualsiasi Paese democratico le enormi spese militari verrebbero criticate chiedendo maggiore attenzione agli squilibri economici e sociali che caratterizzano la Repubblica Popolare, in particolare quelli tra città e campagne. Ma il controllo pervasivo esercitato dal Partito su ogni aspetto della vita quotidiana rende pressoché impossibile ogni protesta.

Alcuni si augurano una crisi strutturale della Repubblica Popolare, eventualmente in grado di condurre a un rovesciamento di regime. Non bisogna tuttavia scordare che, lo si voglia o meno, la Cina è diventata il vero centro del commercio mondiale (anche grazie all’acquiescenza dell’Occidente). Il primo a “fiutare” per davvero il pericolo fu Donald Trump dopo anni di sottovalutazione del fenomeno.

Proprio a causa del carattere che la globalizzazione ha assunto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, una grave crisi cinese rischia di causare danni enormi all’economia mondiale. Già ora si iniziano a sentire gli effetti delle difficoltà di Pechino, poiché le strozzature nella catena degli approvvigionamenti hanno rallentato in maniera considerevole lo scambio delle merci. Tutti i settori economici sono coinvolti. Da quelli apparentemente meno importanti – i giocattoli indispensabili per le feste natalizie – a quelli strategici come i microprocessori, senza i quali cellulari, pc e quant’altro non funzionano.

Facile notare che l’atteggiamento aggressivo in politica estera, per esempio l’aumento della propaganda bellicista contro Taiwan, si può spiegare con il tentativo di rinfocolare il nazionalismo e, quindi, di sviare l’attenzione dei cittadini dai problemi economici di cui sopra. Atteggiamento tipico, del resto, dei regimi dittatoriali, che da sempre tendono a scaricare verso l’estero le tensioni interne prima che esse divengano incontrollabili.