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Pechino strangola Hong Kong, ma non si fermerà qui: la partita per l’egemonia ormai è globale, l’Occidente è avvertito

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Xi Jinping ha deciso di chiudere la questione Hong Kong una volta per tutte, ma la partita è globale, uno scontro per l’egemonia in cui la promozione del proprio modello ideologico per Pechino diventa elemento portante. Fallite le politiche di engagement degli ultimi decenni, nella speranza di fare della Cina un attore internazionale responsabile, e constatandone invece l’intenzione di minare la compattezza del campo democratico, gli Stati Uniti riaffermano l’esigenza di tutelare i propri interessi nazionali in un contesto di “competizione strategica” e sono pronti a imporre sanzioni

In un passaggio cruciale ma non inatteso, il Partito Comunista Cinese (PCC) stringe definitivamente la morsa su Hong Kong e ne strangola le residue velleità democratiche, già ridotte al lumicino dopo anni di vigenza di un artificio chiamato “un paese, due sistemi“. Sorprende la sorpresa, devo dire. La richiesta del governo cinese al Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo (il parlamento fantoccio del regime) di redigere una nuova legge di sicurezza nazionale applicabile alle regioni a statuto speciale (Hong Kong e Macao) è solo l’ultimo anello – il definitivo, probabilmente – di una catena di soprusi e repressioni cominciata nel 1997, quando l’ex colonia britannica fu restituita alla Cina. La legge, la cui approvazione è scontata, rappresenta soltanto la copertura formale di un processo di normalizzazione autoritaria in corso da più di vent’anni e intensificatosi negli ultimi tempi nonostante la resistenza di gran parte della popolazione, che non ha esitato a sfidare le minacce della dittatura con imponenti manifestazioni di protesta.

Vi sono due aspetti specialmente rilevanti nella decisione di Pechino di forzare la macchina fino al probabile punto di rottura. Il primo è lo scavalcamento del Consiglio legislativo di Hong Kong, paralizzato dallo scontro fra la fazione pro-Cina e quella democratica: nell’impossibilità di dare esecuzione all’art. 23 della Basic Law (la costituzione de facto) che prevede precisamente l’approvazione di leggi contro gli “atti di tradimento, secessione, sedizione e sovversione nei confronti del Governo“, Il PCC passa all’offensiva con una legislazione imposta dal centro. Il secondo riguarda il contenuto di questa normativa che, oltre a riprendere le fattispecie indicate nella Basic Law, introduce esplicitamente i concetti di “attività terroristica“, “interferenza straniera” e allarga il ventaglio di opzioni delittuose a “qualsiasi atto che ponga in pericolo la sicurezza nazionale“. Ci torneremo fra poco perché è uno snodo fondamentale. Prima, però, un po’ di contesto.

Il processo legislativo in Cina è una finzione, dal momento che il parlamento nazionale altro non è che un’assemblea che si limita a ratificare le decisioni prese in seno al Partito. In assenza di stato di diritto, il principio di legalità diventa semplicemente la copertura formale dell’arbitrio connaturato nei sistemi a partito unico. Se per la Cina continentale questo è pane quotidiano dal 1949, per Hong Kong si trasforma invece in un dramma reale nel 2020. La difesa della propria autonomia, o di quel che ne è rimasto dopo il “ritorno“, è diventata parte integrante della sua esistenza, la vera costituzione materiale della regione. Il tentativo di Pechino di introdurre il National Security Bill nel 2003, in sostanza un antipasto dello scontro attuale, determinò una reazione popolare massiva che sfociò nella storica manifestazione del primo luglio e nel ritiro del provvedimento dopo mesi di tensione. Ma sono le proteste dell’anno scorso contro la famigerata legge sull’estradizione ad aver accelerato la resa dei conti con l’ex colonia britannica. Le manifestazioni, a tratti violente, sono state considerate a Zhongnanhai la più grave crisi dal 1997, anche per l’incapacità del regime di confrontarsi con la struttura flessibile del movimento, senza leaders visibili, difficilmente riconducibile ai rigidi schemi di controllo e repressione normalmente adottati. La proposta della nuova legge di sicurezza nazionale, non a caso, è stata preceduta il mese scorso dagli arresti di 15 personalità della dissidenza, tra cui Martin Lee, l’ottantunenne storico esponente dell’attivismo democratico, arresti che Pechino ha collegato direttamente a quell’ondata di proteste.

In linea con la tradizione del doublespeak del PCC, che ha parlato per bocca del suo portavoce dell’Assemblea Nazionale Zhang Yesui, la decisione di imporre la scure cinese su Hong Kong è destinata a “ristabilire le garanzie legali e costituzionali” e a “consolidare il principio un paese, due sistemi“, anche se questa volta è stata significativamente omessa qualsiasi menzione a un’autonomia che, evidentemente, Pechino dà per esaurita. Il Global Times, il volto internazionale della stampa di regime, sottolinea in un editoriale la situazione di caos provocata dalle ultime dimostrazioni e la necessità di prevenire “l’ingerenza di forze straniere negli affari interni” di Hong Kong. Secondo l’organo di stampa ufficiale, grazie alla nuova normativa, “il capitalismo nella regione comincerà a presentare tratti comuni con quello delle società avanzate anziché di quelle sottosviluppate“, affermazione che, applicata a uno dei principali centri finanziari del mondo, è tutta una dichiarazione di intenzioni. Ma per capire esattamente da dove viene l’ultima stretta autoritaria bisogna fare un passo indietro fino all’8 maggio scorso, quando l’agenzia di stampa governativa Xinhua pubblicava un’analisi dall’eloquente titolo “Il terrorismo domestico combinato con il separatismo minaccia gravemente Hong Kong“. L’articolo citava casi di ritrovamento di bombe a mano, materiale incendiario, agenti chimici “pericolosi“, mettendoli in relazione con i recenti disordini e concludendo che “le forze separatiste che promuovono l’indipendenza stanno alimentando un estremismo crescente“. L’inclusione esplicita del terrorismo tra i delitti che la nuova legge di sicurezza nazionale si incaricherà di combattere è specialmente rivelatrice. È con l’accusa di terrorismo che il regime comunista ha giustificato la decennale repressione delle rivendicazioni politiche e religiose nello Xinjiang musulmano, fino alla creazione dell’attuale sistema di campi di internamento a fini di “rieducazione” contro la minoranza uigura. Questa incorporazione, che supera ed amplia la formula della Basic Law, viene completata da un’altra disposizione chiave nel piano messo in atto da Pechino: la previsione di sezioni locali dei servizi di sicurezza e spionaggio dipendenti direttamente dalla madrepatria, ovvero l’estensione dello stato di polizia già vigente nel resto della Cina anche a Hong Kong. Non a caso Joshua Wong, altra figura di spicco del movimento per la democrazia, nella sua lettera di denuncia indirizzata al governo italiano si sofferma specialmente su questo punto:

Questo nuovo organo di polizia segreta sostituirà probabilmente il governo e le forze di polizia di Hong Kong e farà scattare gli arresti di tutti i dissidenti in città, proprio come hanno fatto con i difensori dei diritti umani e i dissidenti in Cina“.

La combinazione di questi fattori fornisce un quadro complessivo sconfortante per le prospettive di libertà della regione speciale, liquidando di fatto e di diritto – come rilevato da più parti – la formula “un paese, due sistemi“. Una formula peraltro già ampiamente svuotata di contenuto a causa dei meccanismi istituzionali attraverso i quali Pechino si è sempre garantita il controllo dell’attività politica nel territorio “ribelle“, condizionando pesantemente a suo favore l’elezione dei membri del Consiglio legislativo e imponendo ad ogni tornata il capo dell’esecutivo locale, vera e propria emanazione del Partito Comunista. Carrie Lam, che ricopre attualmente questo ruolo, si è subito prodigata in elogi per la nuova normativa che certamente, dal suo punto di vista, avrà il pregio di evitarle molti dei grattacapi che ne hanno caratterizzato il mandato fino ad oggi. Il pasticcio della legge sull’estradizione, le palesi carenze nella gestione delle proteste e la necessità di compiacere i propri superiori fanno di lei l’emblema della crisi in atto. Anche se la si è vista applaudire e sorridere in piena sessione dell’Assemblea Nazionale, Carrie Lam è non da oggi un cavallo zoppo che il regime sacrificherà senza troppi scrupoli quando lo ritenga necessario.

È inutile girarci attorno, Xi Jinping ha deciso di chiudere la questione Hong Kong una volta per tutte. Nel farlo ha lanciato un messaggio contundente, diretto – come sempre – a una molteplicità di destinatari:
– all’opposizione democratica, i cui spazi di manovra saranno sostanzialmente nulli a partire dall’approvazione delle misure restrittive: ogni protesta potrà essere perseguita come tentativo di sovversione, ma anche le dichiarazioni pubbliche critiche con il governo centrale, i tweet, le riunioni, le assemblee, gli appelli per la democrazia;
– alla società civile di Hong Kong, liberi professionisti, imprenditori, amministratori locali, la cui fedeltà alla linea del Partito diventerà condizione essenziale per l’esercizio della loro attività;
– ai politici pro-Pechino, a cui il regime manda un avvertimento: se non siete capaci di controllare la situazione, saremo obbligati a intervenire direttamente con provvedimenti draconiani che condizioneranno anche la vostra vita;
– a Taiwan, minacciata da manovre militari e dalla prospettiva di un’imposizione, con le buone o con le cattive, del modello “un paese, due sistemi“, che ha rivelato adesso il suo vero volto. Per la prima volta è scomparso dai documenti ufficiali l’aggettivo “pacifico” in riferimento alla riunificazione dell’isola con il continente;
– alle democrazie occidentali, a cui la Cina fa sapere che non accetterà nessun tipo di interferenza nelle “questioni interne“, confermando di interpretare quello in corso come uno scontro per l’egemonia in cui la promozione del proprio modello ideologico diventa elemento portante: l’assimilazione totale di Hong Kong al sistema Cina e l’ombra del Dragone che incombe su Taiwan sono attacchi diretti alla concezione liberale della politica, dell’economia e del diritto, lanciati su territori geograficamente prossimi ma precursori di sviluppi di più ampia portata. Un’offensiva che Pechino promuove proprio nel momento in cui Stati Uniti ed Europa si stanno leccando le ferite ancora aperte dopo il passaggio del Covid-19, il virus di Wuhan: quasi centomila morti americani, altrettanti nel vecchio continente e decine di milioni di posti di lavoro persi nel nulla, con prospettive catastrofiche di recupero economico. In mezzo a questo campo di battaglia la Cina cosa fa? Decide di strangolare Hong Kong e di incrementare del 6 per cento le spese militari. Ecco perché parlare di “questioni interne” è ipocrita.

Con un tempismo perfetto, solo ventiquattro ore prima dell’annuncio della nuova normativa, la Casa Bianca rendeva pubblico un documento sul nuovo approccio strategico americano nei confronti della Repubblica Popolare Cinese. Riconoscendo il fallimento delle politiche di engagement perseguite negli ultimi decenni, nella speranza di fare di Pechino un attore internazionale che agisse nel rispetto delle regole, e constatandone invece l’intenzione di minare la compattezza del campo democratico, gli Stati Uniti riaffermano l’esigenza della protezione dei propri interessi nazionali in un contesto di “competizione strategica“. Rispetto ad Hong Kong c’è un passaggio significativo che recita:

Il presidente, il vice-presidente e il segretario di Stato hanno a più riprese invitato Pechino a onorare la Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984 e a preservare l’elevato grado di autonomia, lo stato di diritto e le libertà democratiche che fanno di Hong Kong un punto cardine degli affari e della finanza internazionali“.

Dietro questo enunciato premonitorio, oltre alle affermazioni di principio, ci sono motivazioni concrete. Entro fine mese Washington, secondo lo Human Rights and Democracy Act del 2019, dovrebbe ratificare i privilegi commerciali concessi a Hong Kong sulla base della sua reale autonomia dalla Cina. Non è una circostanza secondaria perché, al di là degli effetti economici immediati, una decisione in senso contrario darebbe alla comunità internazionale un segnale di sfiducia difficilmente ammortizzabile. Pompeo, nel commentare la proposta di legge dell’Assemblea Nazionale, ha immediatamente fatto sapere che “azioni come questa complicano la situazione“. A Hong Kong operano 1.300 imprese e vivono 85.000 cittadini statunitensi.

Ieri sera alla Nbc, il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien ha detto che “gli Stati Uniti probabilmente imporranno sanzioni a Hong Kong e alla Cina, se Pechino va avanti” con la legge per la sicurezza nazionale su Hong Kong. “Ed è difficile vedere come Hong Kong possa restare il centro finanziario dell’Asia che è diventata se la Cina prende il controllo”, ha aggiunto. I servizi finanziari, ha ricordato O’Brien, sono arrivati perché lo stato di diritto proteggeva la libera impresa e il sistema capitalista. “Se tutto questo va via, non vedo come la comunità finanziaria possa restare… Non resteranno in una Hong Kong dominata dalla Repubblica Popolare, dal Partito comunista”.

L’iter legislativo sarà rapido perché Pechino ha fretta. Il Global Times ha annunciato che è già quasi tutto pronto (non c’è da dubitarne) visto che la normativa riveste “carattere di urgenza“. È tutto pronto da mesi, in realtà, ma la coreografia vuole i suoi rituali, anche nelle dittature. Giovedì l’Assemblea del Popolo approverà la risoluzione, poi sarà il Comitato Permanente l’incaricato di redigere le clausule che esautoreranno gli organi legislativi della regione speciale e unificheranno, di fatto, il sistema giudiziario di Hong Kong con quello della madrepatria. La legge sulla sicurezza nazionale sarà imposta servendosi dell’Annesso III della Basic Law, che contempla l’intervento diretto di Pechino in materia di difesa nazionale e affari esteri: una circostanza giuridicamente difficile da giustificare ma c’è da giurare che la volontà del Partito prevarrà su ogni formalismo. Questione di settimane, quindi. Cosa farà Hong Kong nel frattempo? Ieri le prime avvisaglie di quel che verrà. In pieno coprifuoco da Covid-19, strategicamente esteso fino al 4 giugno (anniversario di Tiananmen), proteste e scontri nel centro della città, con arresti e feriti. Joshua Wong ha annunciato una primavera calda, “non possiamo restare con le mani in mano“. Davanti, molte date significative: il 4 giugno solo a Hong Kong si ricorda il massacro del 1989, poi il corteo annuale del primo luglio e le legislative di settembre, con l’attesa vittoria delle opposizioni che il sistema elettorale neutralizzerà ma che, a livello simbolico e morale, potrebbero scuotere ulteriormente le fragili certezze di Pechino. In fondo la decisione di chiudere la partita con la forza altro non è che l’ammissione di una debolezza che mina il sistema autoritario dalle fondamenta: la Cina ha già perso Hong Kong, il PCC è visto come un nemico che ha rinunciato perfino alle apparenze, non rimane che il bastone. L’occidente resterà a guardare o capirà che è in corso uno scontro vitale anche per noi? Che, come nella Guerra Fredda, sul cadavere delle libertà degli hongkongers si gioca una partita globale che rischiamo seriamente di perdere? Si può essere cinesi e liberi, prosperi e autonomi, gridano dai distretti di Causeway Bay e Wan Chai. Pechino non può lasciar fare, sa che il contagio democratico si può estendere più velocemente del virus di Wuhan, per quello reprime e minaccia. Ma noi? Ancora disposti a credere nel soft power della più grande dittatura del pianeta? Fino a quando? “Prima vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla, perché non ero ebreo“. Vi svelo un segreto: la Cina di Xi Jinping non si fermerà qui.

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