Draghi andrà al Quirinale? Il Pd non vuole. Il 24 agosto al Meeting di Rimini, il segretario Letta dava fuoco alle polveri: “io mi impegno e impegno il mio partito … a chiedere a Draghi di essere il nostro primo ministro almeno fino alla scadenza naturale della legislatura nell’aprile del 2023”. Perché? Beh perché “sta rappresentando bene l’Italia all’estero e fa riforme importanti”.
L’obiezione del Pd è debole: Draghi risponderebbe di poterlo fare pure dal Quirinale. Così, nell’immediato, hanno scritto Il Foglio (“la garanzia per sette anni di un’apertura politica, intellettuale e programmatica al piano di rinascita europeo e alle riforme, Draghi consule nel palazzo dei Papi”) e Domani (“Draghi al Colle sarebbe la garanzia che la credibilità dell’Italia di fronte all’Europa … sarebbe salva anche con Matteo Salvini e Giorgia Meloni al potere da soli”).
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Purtroppissimo, il 12 settembre alla Festa Nazionale dell’Unità, Letta testardamente ribadiva: “vogliamo che il governo Draghi duri fino alla scadenza naturale della legislatura”. Perché? Beh per attuare “un programma fatto di riforme che era troppo tempo che non si riuscivano a fare”. Specificava la Repubblica con Folli: “la stabilità continua a essere un’esigenza prioritaria negli anni del Recovery Plan”, dunque “la questione Draghi al Quirinale: sì o no, è in buona misura un falso problema” e “la permanenza di Mattarella al Quirinale … è assai plausibile”.
Di fronte a tanta testardaggine, Draghi si è speso in prima persona, in occasione di un suo pellegrinaggio a Bologna, lo scorso 15 settembre. Lì, ha definito come proprio “punto di riferimento” il defunto Andreatta (quello dell’Ulivo), ha chiamato il di lui erede Prodi più volte col nome di battesimo, ha descritto gli astanti come “amici di una vita” … in tal modo dicendo al Pd: guardate che io sono uno dei vostri. Dipoi, ha decantato di Andreatta (quello del divorzio Tesoro-Bankitalia) il “rigore morale … non ha esitato a prendere decisioni necessarie, anche quando erano impopolari. Ho tentato di dire soprattutto se erano impopolari. Le cose vanno fatte perché si devono fare … dire molti no e pochi sì, per evitare che tutto sia travolto nell’irresponsabilità” … in tal modo dicendo al Pd: guardate che io sono per il rigore di bilancio. Per soprannumero, si è fatto invitare da Prodi ad un incontro di capi religiosi … così ha fatto contenta pure la frangia più dossettiana.
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Purtroppissimo, il pellegrinaggio non ha dato buon frutto. Come dimostrerebbe l’indiscrezione di una cena al Quirinale, il 23 settembre, nella quale Draghi avrebbe detto a Mattarella: “se resti tu, resto anche io”. Affermazione che ci sembra aver risposto ad una domanda: se io resto, tu che fai? L’indiscrezione è stata ufficiosamente smentita: “non c’è stata nessuna cena con Mattarella, per di più una cena per concordare il futuro o per spartirlo”.
Fatto si è che è dal giorno della smentita cena che ha avuto inizio un profluvio di dichiarazioni di ministri in carica, a favore di Draghi al Quirinale: Giorgetti e Brunetta, in particolare. Il primo con parole molto simili a quelle usate da Francesco Giavazzi, lo scorso maggio (vedi Atlantico). I tre sono talmente vicini a Draghi, da non consentire abbiano agito senza la sua, almeno tacita, approvazione.
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Purtroppissimo, il segretario Letta continuava a ripetere testardo: “mandare Draghi al Quirinale e poi andare al voto non è nell’interesse dell’Italia. L’interesse dell’Italia di oggi è che questo governo duri”.
Il suo vicesegretario Provenzano aggiungeva un argomento di correttezza istituzionale: “non c’è niente di più istituzionalmente scorretto che aprire oggi la campagna sul Colle e niente di più sbagliato che utilizzare il Quirinale per dichiarare esaurita nei fatti questa esperienza di governo”. Argomento poi spiegato da un quirinalista accreditato, Ugo Magri: “Mattarella resterà al Quirinale fino al 2 febbraio … le elezioni presidenziali cominceranno invece a inizio gennaio. Se putacaso Draghi venisse incoronato ai primi scrutini … dovrebbe attendere fino al giorno del giuramento”, non prima del 2 febbraio, quindi la crisi di governo dovrebbe gestirla Mattarella, ma ciò “non sarebbe giusto … potremmo definirlo poco carino nei suoi confronti”. Questione da costituzionalisti finissimi, ma di lana caprina: dalla elezione al giuramento Draghi sarebbe presidente della Repubblica solo in pectore, quindi non ci sarebbe bisogno di sostituirlo, fino al giorno in cui egli sarebbe libero di dare inizio a proprie consultazioni.
Provenzano aggiungeva pure un argomento finanziario: “il mandato di Draghi non si è ancora esaurito. Il prossimo anno sarà decisivo per negoziare le nuove regole europee, consolidando la svolta per cui ci siamo battuti … si apre finalmente la discussione sul patto per la crescita e il lavoro”. Dalché apprendiamo che Draghi avrebbe ricevuto (dal Pd?) un mandato ad ottenere la riforma delle regole europee.
Ha risposto Draghi, in conferenza stampa in occasione della presentazione della Nadef: egli, non solo si guardava bene dal negare un interesse per il Quirinale (“è il Parlamento che decide”), ma pure illustrava un quadro logico-finanziario atto a sospingercelo quasi fosse la forza delle cose (come abbiamo visto su Atlantico).
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Purtroppissimo, dopo le elezioni amministrative, Letta ha deciso di andare a vedere le carte. Egli non crede al quadro logico-finanziario illustrato da Draghi, anzi lo sbeffeggia: “i problemi emergeranno, uno dopo l’altro. Io penso, per esempio, che fare la prossima Legge di Bilancio e poi impostare quella successiva ancora, saranno questioni complicate”. Notare l’ironia: “cambieranno le regole europee, si tornerà (man mano che si esce dalla pandemia) a regole più normali (diciamo). E, quindi, a poter fare meno ricorso a quello che stiamo usando in questo periodo, cioè il debito … si tornerà a equilibri di bilancio che saranno più complicati per la vicenda politica”. L’iceberg.
Ma non solo. Continua Letta: “diciamo la verità: adesso siamo in una condizione straordinaria in cui, per via della situazione eccezionale che stiamo vivendo, si usa il debito. Però, il debito qualcuno lo dovrà ripagare, non è una bella cosa usare il debito”. Cioè, tradotto: Draghi fa il bullo perché può far debito … ma ciò che fa Draghi non è una bella cosa. Tale non bella cosa sta in piedi solo perché Draghi sta a Palazzo Chigi: “grazie al presidente del Consiglio che abbiamo e alla sua capacità, in giro per l’Europa, di rassicurare e essere forte … e non infilarsi in una fine anticipata della legislatura, sulla quale io, francamente, avrei molti dubbi”. Cioè, Letta ha molti dubbi che l’Italia potrebbe continuare a fare debito con Draghi al Quirinale.
Conclusione logica, ancora Letta: “solo una coalizione unita e coesa sarà in grado di prendere, nel 2023, il testimone da Draghi. Il mio modello è quello di Scholz con la Merkel: garantire continuità al governo dentro un percorso complesso”. Cioè, non solo Draghi non diventa presidente della Repubblica, ma pure non resta a Chigi oltre il 2023, e pure con una maggioranza unita e coesa … col Pd. Cioè, Draghi diventa il primo ministro a tempo del Pd. Ed è solo alla luce di tale obiettivo, che Letta può dire: “la nostra vittoria … rafforza il governo Draghi” … nel senso che incatena Draghi a Chigi.
Gli ha risposto Draghi, in conferenza stampa per presentare la delega fiscale: “non credo che il risultato delle elezioni abbia in qualche modo indebolito il governo. Però non so nemmeno se l’ha rafforzato. Cioè, come dire, è molto complicato. So che oggi ci son tanti articoli sui giornali che dicono che il governo esce vincitore da questa tornata elettorale. Ma devo capire bene la logica di questo”. Cioè, Draghi dice di dover capire bene la logica di Letta. Cioè, non la condivide: Draghi non condivide la logica di Letta. Cioè, Draghi non vuole divenire il primo ministro a tempo del Pd … bensì presidente della Repubblica. Se sapeva.
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Purtroppissimo, Letta profittava della lite di Draghi con Salvini sulla delega fiscale, per infierire: “noi chiediamo al premier di andare avanti, siamo per un governo stabile, fino alla scadenza naturale della legislatura”; con Serracchiani e Malpezzi che aggiungevano: “noi siamo per andare avanti con Draghi”. Poi ancora Letta: “bisogna che questo schema duri … Draghi il leader più forte a Bruxelles, dove si riforma il patto di stabilità e si decidono le cose importanti per il futuro dell’Italia”. Il proclama della vittoria è di Stefano Folli: “Salvini rischia … di regalare il presidente del Consiglio al centrosinistra e questo giusto alla vigilia della contesa per il Quirinale: sarebbe una bizzarra forma di autolesionismo” … detto con compiacimento da chi Draghi al Quirinale non lo vuole. La nota comica è del ministro Orlando: “sul Quirinale, nel Pd c’è una consegna del silenzio che rispetto”. Alla faccia del silenzio…
Draghi non ha ancora risposto. Ma forse la risposta a Letta è implicita nella risposta a Salvini: “l’azione di governo, come ha visto, non è stata interrotta: è andata avanti”. Cioè, Draghi sa di non poter andare al Quirinale, a febbraio, se non avrà incassato la prima tranche del Recovery Fund, a dicembre: è una condizione necessaria ancorché non sufficiente. Perciò egli, sino a dicembre, tiene fermo il cronoprogramma. Lo ha ripetuto mercoledì, a Brdo: “noi dobbiamo seguire il calendario che è stato negoziato con la Commissione europea per il Pnrr, ma anche per le raccomandazioni che sono state date dalla Commissione all’Italia”. Cronoprogramma che include pure la legge sulla concorrenza che la LegaSalvini non può in alcun modo votare, nonché la maxi-dote per regalare MontePaschi ad UniCredit … e accada ciò che accada.
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Riuscirà Draghi a convincere il Pd ad eleggerlo al Quirinale? Non si sa. Talché, corre l’obbligo di chiedersi a quali risorse egli possa ricorrere.
Sicuramente, conta su Giorgetti ed una di lui vittoria nella guerra delle due Leghe (guerra scontata fin dalla nascita del governo Draghi, e invisibile solo ai ciechi). D’altronde, Giorgetti non ha condiviso la lite sulla delega fiscale. La Nadef fa cenno (p.12) a “disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata”: non necessariamente molto e non domani, anzi … comunque, qualcosa da sventolare in faccia a Salvini … infatti, Zaia ha subito gratificato Draghi col titolo di “uomo della responsabilità”.
Lo stesso Giorgetti ha manifestamente fatto campagna elettorale contro il proprio segretario e non poteva non avere in mente un qualche piano per il dopo-sconfitta: del quale piano solo sappiamo che la LegaEuro voterà Draghi al Quirinale … costi quel che costi. Resta solo da vedere se la guerra delle due Leghe finirà con Salvini detronizzato, o marginalizzato con una scissione … e non vediamo perché Draghi non dovrebbe preferire tale seconda prospettiva. Per azionarla, gli basterà porre in Parlamento la fiducia sulla delega fiscale: Salvini, infatti, ha scandito, “il sostegno della Lega al governo non è in discussione, quando si tratta di tagliare le tasse … molto semplicemente, noi contiamo che il Parlamento (che può intervenire) modifichi questi passaggi, tolga qualsiasi ipotesi di riforma del catasto e di patrimoniale sulla casa, dalla delega fiscale”. Una fiducia e passa la paura. Condizioni Giorgetti non ne pone, ma certo gradirebbe un governo ponte, sino al 2023.
Draghi, poi, conta su Forza Italia. Basti leggere Berlusconi: Salvini o Meloni a Palazzo Chigi? “ma dai, non scherziamo…”; parole che ci piace leggere insieme a quelle di Antonio Martino, il quale lui pure sosteneva Calenda, dice che a Meloni manca “la stoffa”, a Salvini “la faccia” per andare a Chigi e, coerentemente, non si augura “un governo solamente di centrodestra”. E con chi altri lo vorrebbe fare, un governo, se non con i seguaci di Draghi? Unica postilla: Forza Italia invoca un governo ponte, sino al 2023.
Più difficilmente Draghi potrebbe contare su qualche successo internazionale, come pure ha tentato dopo l’Afghanistan: il presidente cinese Xi Jinping non verrà a Roma per il G20 di fine ottobre … figurarsi per il G20 straordinario del quale Draghi si è tanto invaghito.
Che gli resta? Beh, fondamentalmente darsi fuoco: non rendersi disponibile ad un reincarico dopo le dimissioni dovute ad un nuovo presidente della Repubblica che non sia lui stesso. Basta rileggere le parole di Giorgetti: “mancherà un anno alle elezioni e Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente”. E quelle di Giavazzi: “penso che ci sia un forte argomento per non aspettare fino al ’23; voglio dire, dopo l’elezione di un nuovo presidente questo sarà un anno di campagna essenzialmente politica che dura 15 mesi”. Insomma, Draghi potrebbe dire a Letta e Mattarella: o io o le elezioni. Facendoli riflettere se non sia meglio eleggere lui a fare il “De Gaulle” (espressione di Giorgetti): cioè ad incaricare un governo del presidente della Repubblica Draghi, affidato ad un agente fedele dello stesso (il ministro Franco, ad esempio). Così facendo, il Pd otterrebbe di non prendersi in faccia l’iceberg: lo prenderebbe un uomo di Draghi … ma con quest’ultimo comodamente al riparo sul Colle. Un compromesso, per entrambe le parti non dei peggiori.
Significativamente qui batte il chiodo della Meloni, la quale ha detto a Letta: “siamo pronti a votare Draghi alla presidenza della Repubblica, purché si vada subito alle elezioni”. Nella consapevolezza che, il giorno che Draghi e Letta trovassero un accordo, non ce ne sarebbe più per nessuno. Un chiodo talmente appuntito, da aver meritato la motivata replica di un quotidiano che vuole Draghi al Quirinale, Domani, nella persona del politologo Pasquino: “nessun presidente della Repubblica è autorizzato a sciogliere un Parlamento nel quale esista una maggioranza che sostiene un governo” … e tanto basti.
Insomma, Draghi vuole disperatamente il Quirinale. E possiamo capirlo, visto che l’iceberg si avvicina. Aspira ai voti di un lembo soltanto della destra e cerca di assicurarseli: bastonandola e dividendola. Gli mancano i voti del grosso della sinistra e cerca di recuperarli: compiacendola ed incensandola. È una strategia ormai delineata, che passa per un governo ponte sino al 2023. Vedremo se gli porterà i frutti sperati.