La parola magica usata e abusata nei fondi dei quotidiani e nei talk show televisivi è stata “stabilità”, con riguardo alla elezione del presidente della Repubblica: invocata alla vigilia, in favore di Draghi, che dal Quirinale l’avrebbe garantita per sette anni sub specie di un semipresidenzialismo di fatto; e nel, corso dell’Assemblea elettiva, a favore di Mattarella, sub specie di una slavina di voti incontrollabile. Ora bisognerebbe intendersi sul significato della parola, per verificare se e quanto sia compatibile con la democrazia, che ovviamente non deve risultarne lesa. Chiunque tesse una lode della stabilità come immutabilità della classe al potere, dà affatto per scontato che questa è di certo meglio assicurata dalla dittatura o dall’autocrazia, dove vale la perpetuazione personale, che può anche avere il conforto di elezioni, ma svolte con una sola voce o addirittura con una conta fraudolenta.
Noi cominciamo ad essere messi in sospetto in presenza di una Costituzione che non stabilisca limiti temporali alla durata degli incarichi elettivi e di eventuali regimi emergenziali, in funzione e ragione di procedure formali sufficientemente rigide, come è caratteristica tipica di quella c.d. occidentale, che è la sola a meritare questa qualifica, figlia quale è di quasi tremila anni di storia, sì da non poter essere esportata alla bella e meglio. Ma non ci basta la carta scritta, al riguardo basta ricordare le perfette costituzioni delle democrazie socialiste, di fatto asservite completamente a Mosca, sì dover recuperare a fatica dopo il crollo del Muro di Berlino. Vogliamo vedere come funziona davvero nella realtà quotidiana, secondo la regola base della democrazia che per essere tale deve essere pluralista a livello civile e politico, con la compresenza di più forze libere di esprimersi. Se così è, la democrazia soffre di una fisiologica discontinuità, le fondamenta rimangono immodificate, ma non così i piani che vi sono costruiti sopra, soggetti a ristrutturazioni più o meno incisive.
Come affronta una democrazia una situazione di emergenza sanitaria ed economica, quale quella che ha segnato traumaticamente l’ultimo triennio, se non vi è alcuna specifica normativa al riguardo nella carta fondamentale? Sia la durata sia la natura della coartazione dei diritti fondamentali – a cominciare dalla libertà personale, base di ogni convivenza civile – devono essere solo quelle strettamente richieste dalla situazione emergenziale, senza coltivare una politica a strascico, che violando quel diritto primigenio violi al tempo stesso tutti quelli che ne derivano; durata e natura, che devono essere valutate secondo la formula aurea della giurisprudenza costituzionale, ragionevolezza e proporzionalità.
Chi dovrebbe farsene garante? Prima, in sede di emanazione delle misure, il Parlamento e il presidente della Repubblica, poi, in sede di applicazione, la magistratura, ordinaria e amministrativa e, se ed in quanto chiamata in causa, la Corte costituzionale; ma non si può dire che la cosa sia andata così. Il Parlamento, già delegittimato da una riforma che lo riduceva di un terzo – con in più la nascita di Italia Viva, la liquefazione dei 5 Stelle, la frammentazione di Forza Italia – è stato letteralmente dominato dall’istinto di sopravvivenza , ingoiando prima i decreti del presidente del Consiglio, del tutto sottratti al suo controllo, poi i decreti legge convertiti col voto di fiducia; il presidente della Repubblica ha dato un tacito assenso, come fosse un convitato di pietra; la magistratura, ordinaria e amministrativa, ha operato da compare, non facendo proprie le eccezioni di costituzionalità sollevate dai ricorrenti contro le misure governative, sì da tener fuori il giudice delle leggi.
La opinione condivisa dai mass media, con una inedita consonanza fra le voci “di sinistra” e di “destra”, è stata quella di mettere alla gogna i partiti per la figuraccia fatta nella rielezione di Mattarella, che certo hanno le loro colpe per non aver raggiunto una intesa, sì da essere stati smentiti e travolti dalla marea montante dei parlamentari, ma non senza attenuanti. A ben vedere la candidatura di Berlusconi, condivisa dall’intero centrodestra, è stata intenzionalmente mantenuta fino alla sera precedente l’inizio delle votazioni, nonostante fosse già chiara la sua impraticabilità, sì da impedire che una trattativa si svolgesse prima, la nobile lettera di congedo da lui scritta appariva già allora parecchio artificiosa. Quel che voleva l’uomo di Arcore era di restare il regista dell’operazione, adattandosi rapidamente alla sua evoluzione, con una prontezza e vivacità poco compatibile con la sua permanenza in ospedale, Casellati, Casini, Mattarella. Ma a metterci la loro sono state le ambizioni coltivate più o meno sottotraccia da Casini, Draghi e lo stesso Mattarella, che hanno finito per avvitare l’Assemblea elettiva, col rendere una del tutto fisiologica durata pericolosa per la sopravvivenza della legislatura, credo unica elezione presidenziale senza candidature contrapposte.
È una democrazia in sofferenza se la sua stabilità è assicurata dalla rielezione di un presidente della Repubblica, così da assicuragli la carica per la durata di 14 anni, credo non prevista da nessuna costituzione democratica, perché tale da comportarne quella personalizzazione caratterizzante dittature e autocrazie, fra l’altro da parte di una Assemblea elettiva non più linea con la modifica costituzionale; e ancor più se tale stabilità è, altresì, assicurata da presidenze del Consiglio assegnate a persone non elette, scelte in una camera d’albergo da una alleanza gialloverde con una maggioranza parlamentare numerica ma priva di qualsiasi omogeneità politica (Conte), o imposte in funzione salvifica dal presidente della Repubblica ad una alleanza tanto ampia da riuscire inattendibile, almeno nell’anno pre-elettorale (Draghi).
La cura sarebbe stata quella tipica di una democrazia, cioè il ricorso alle elezioni politiche, ma non è stata praticata da Mattarella, con la scusa dell’emergenza, ma con la piena consapevolezza che il Pd, cui doveva la sua elezione, sarebbe uscito battuto, sì da rendere del tutto improbabile un suo ritorno al Quirinale, aspettativa coltivata con la fredda pazienza di un democristiano d’antan. Invece, quella che sembra riemergere è una ulteriore revisione della legge elettorale, la cui immodificabilità specie nell’immediata vigilia di una nuova consultazione, rappresenta, questa sì, una ragione di instabilità di una democrazia, tant’è che la longevità di tale legge caratterizza la sua stessa vitalità. Visto il caos di un Parlamento che se fosse stato eletto con una legge proporzionale, non avrebbe potuto risultare così frammentato; ecco i centristi senza elettori, propugnarne una purissima, con una percentuale minima di ingresso, tanto da sopravvivere, non senza però l’aspettativa di acquisire la parte del pendolo determinante. Fossero solo loro, ma c’è anche nel centrosinistra la speranza di poter così sconfiggere un centrodestra dato vincente come coalizione, costringendolo a battersi distintamente nelle tre forze che lo compongono, adottando la tecnica dell’ultimo degli Orazi.