Nel bel mezzo della seconda ondata della pandemia ci accorgiamo che l’Italia contiana non è quel “modello” che ci hanno raccontato e che le cose si potevano fare meglio. Ma c’è una cosa che lascia attoniti e riguarda il futuro del nostro Paese. Avrete sicuramente notato come a ogni domanda sui problemi che l’Italia porta con sé, ahinoi, da anni, la risposta del presidente del Consiglio e dei suoi ministri è la seguente: “Lo faremo con i soldi del Recovery Fund”. Detto che l’erogazione del RF è ancora in forse – e che se tutto andrà bene riceveremo il 6 per cento del totale a nostra disposizione nella primavera del 2021 – lascia interdetti vedere un grande Paese del G7 trovarsi nelle condizioni di mendicare a Bruxelles dei fondi per tenersi in vita. Ricordiamo, purtroppo, quelle popolazioni colpite da guerre e calamità che attendono come il Messia l’arrivo dei Marines in elicottero per il lancio delle derrate alimentari.
Naturalmente i soldi del RF possono farci comodo, ma è da noi italiani che deve partire il rilancio. Tutti sappiamo che nel nostro Paese ci sono sprechi, sperequazioni e ingiustizie che fanno gridare allo scandalo. La spending review è ferma. Peggio, nelle mani del viceministro grillino Castelli. L’economia anche, duramente colpita dal Covid-19 – e si è fatta ormai ampiamente strada l’idea che in Italia sia meglio un lavoro sicuro e ben remunerato nel pubblico che non dovere lottare contro la burocrazia e uno Stato nemico della libera intrapresa.
Aldilà della vuota retorica del Covid come di “una opportunità per il rilancio” (sic), è davvero giunta l’ora di riformare questo Paese e fornire un quadro politico e istituzionale chiaro a cittadini e investitori. Gli stessi 5 Stelle, felici di avere limitato la rappresentanza con la vittoria del “Sì” al referendum dello scorso mese di settembre sul taglio dei parlamentari, hanno parlato di una stagione di riforme, anche se dubito siano quelle di cui l’Italia avrebbe davvero necessità.
La crisi del Paese nasce con la crisi dei suoi corpi intermedi, le cosiddette “piccole patrie” di cui parlava Robert Nisbet, e della sua economia, avvitata su se stessa e vittima di un clamoroso parastatalismo di ritorno. Ecco perché uno Stato che vuole definirsi davvero liberale in senso classico non può più procrastinare la riforma federale e il più ampio decentramento da Roma, implementando quel self-government che ha fatto la fortuna di tutti gli Stati meglio governati al mondo. Nel programma elettorale della Lega e del centro-destra per le elezioni del 2018 la riforma federale c’era, ed era considerata uno dei pilastri del programma.
Visto che la cultura federalista del governo giallo-rosso-rosa latita, si potrebbe comunque agire concedendo maggiore autonomia agli enti territoriali. Il Veneto e la Lombardia hanno espresso ormai quasi tre anni fa la loro intenzione in questo senso, e anche la Liguria e due regioni governate dalla sinistra, la Campania e l’Emilia-Romagna hanno manifestato la medesima volontà. Eppure, di fronte a questa forte spinta dai territori – che in Veneto assume quasi la connotazione di un plebiscito – il governo continua a rinviare la palla in tribuna, come il peggior Riccardo Ferri.
Il ministro Boccia formula elaborate super-cazzole, affermando che “serve una cornice costituzionale” perché l’autonomia non si traduca in una secessione dei ricchi. La cornice costituzionale in realtà c’è, il Titolo V della nostra legge fondamentale – e, in particolare, l’art.116 terzo comma – riformato proprio dal centrosinistra nel 2001. Vale la pena di ricordare a Boccia, e ai tanti pentastellati che giudicano l’autonomia delle regioni come una iattura, che i referendum del 2017 in Lombardia e Veneto seguirono il dettato costituzionale e le leggi della Repubblica, e furono il frutto dell’accordo tra le regioni e lo Stato, rappresentato dal Viminale e dalle prefetture. Nel testo del quesito lombardo si specificava peraltro che la richiesta di maggiore autonomia rientrava “nel quadro dell’unità nazionale”.
Purtroppo la crisi del Covid-19 è stato il pretesto per ricentralizzare il potere da parte del governo accusando le regioni di tutte le manchevolezze di un apparato statale elefantiaco e inefficiente. Di federalismo e autonomia non si parla più, anche se la recente tornata elettorale delle amministrative ha mandato un messaggio opposto: i governatori delle regioni che hanno meglio gestito la pandemia sono stati premiati dagli elettori, dimostrando che il giudizio positivo nei confronti di chi concretamente affronta i problemi quotidiani dei cittadini da vicino dà benefici poi anche politicamente. Per fare ripartire l’Italia quindi non serve andare a Bruxelles con il cappello in mano, né accedere al Mes (specialmente quando dalla collocazione dei nostri titoli di Stato riusciamo a ricavare 7,5 miliardi di euro al giorno): serve uno Stato più snello, più amico delle imprese e che non veda nel coronavirus l’alleato per mettere le mani sulle aziende in difficoltà. Lo Stato è diventato gelataio (Sammontana) e salumiere (Ferrarini) in questi ultimi mesi: settori tutt’altro che strategici. Altro che Golden Share! Se questi vanno avanti così rischiamo di avere pure le bibite di Stato. Chissà cosa ne pensano alla Farnesina…