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“Per una nuova destra”: un invito ai liberali a smetterla di essere anti-italiani

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Peter Thiel, il miliardario imprenditore e venture capitalist di PayPal e Palantir, mecenate,alla maniera di Lorenzo il Magnifico, del pensiero liberal-conservatore, e pensatore egli stesso, nonché erede dello scettro di Rupert Murdoch di babau di tutte le sinistre anglofone, osservava di recente recensendo Ross Douthat che:

“L’ottimismo sfrenato e il pessimismo fatalistico potrebbero dare l’impressione di essere in netto contrasto tra loro, ma entrambi degenerano in apatia. Se infatti le cose non potessero che migliorare o fossero destinate a fallire, in entrambi i casi le nostre azioni non avrebbero alcuna importanza”.

“Per una nuova destra”, di Daniele Capezzone, è un libriccino di cui assaporare tanto le righe quanto gli spazi tra esse; tanto il detto, quanto il sussurrato e il sottinteso. Due i tratti distintivi: il primo, che piacerebbe molto a Thiel, è l’ottimismo, moderato e proattivo, di un autore che, pur consapevole della posizione di egemonia culturale e istituzionale delle sinistre in Italia, si descrive scettico sulle “prospettazioni o impressioni troppo catastrofiche. […] tutto muta, nulla è precluso, molto è affidato per un verso al capriccio del caso e per altro verso alla nostra tenacia. […] se almeno la metà del tempo e delle energie dedicate da destra a questa pur giustificata lagna fosse stato impegnato a costruire una rete alternativa, oggi ci si troverebbe in una situazione diversa, più aperta, più equilibrata, più competitiva.”

L’altro è lo sforzo di proporre, accanto ad una linea liberista in ambito economico e libertaria in quello della moralità pubblica, la ricerca di nemici insoliti per il repertorio liberale italiano: le élites invece che l’italiano medio, le organizzazioni sovranazionali invece che l’elettore, l’alta burocrazia di stato invece che il bidello. Non si tratta, insomma, dell’ennesimo pamphlet di un non-marxista che, col fervore della propria presunta superiorità morale, ordini alla destra italiana di essere più liberale, ma di un invito ai liberali a smetterla di essere anti-italiani, perché è spalleggiando la denigrazione degli italiani che ci si è ritrovati utili idioti di chi aveva sempre inteso privarli della loro libertà. Un motivo, questo, su cui torneremo in seguito.

Ecco allora la visione dell’autore, informata da un vero tour de force: dai teorici dei supply-side tax cuts di epoca reaganiana (che godono in Italia della disapprovazione non solo dei socialisti, ma più in generale di tutti gli ayatollah del pareggio di bilancio) a Clint Eastwood (con cui l’autore ricorre ad un personaggio caro alla destra per metterla in guardia da un’acritica agenda law-and-order), dall’onnipresente Telegraph al Friedman di Ebenstein e l’Hayek di Infantino, dal Jack Kemp di Kondracke e Barnes al Reagan e la Thatcher di Wapshott, la biografia ufficiale di lei di Charles Moore, i Federalist Papers, e persino un po’ di Fox News con Pete Hegseth e Mark Levin. Non stupirà che, dopo questo corredo di citazioni, l’autore si confessi un estimatore del bipolarismo politico americano, e proponga financo di replicarne le strutture partitiche. Seguono infine due vivacissimi capitoli su Unione europea e Cina, osservate con occhi britannici, l’una, e “neo-con”, l’altra.

Certo, il lettore potrebbe obiettare che vi sia troppa Anglosfera, o che l’autore stia carosoneggiando, voglia fare l’ammericano, ma sarebbe un grave errore: Capezzone conosce benissimo le condizioni dell’Italia del 2021, gli angustissimi spazi lasciati alla libertà e alla democrazia, e la descrive con luminosa precisione:

Qualunque cosa si pensi del Recovery Plan (nei capitoli precedenti non ho lesinato perplessità e critiche di impronta liberale e antidirigista), esso fissa un doppio e ferreo vincolo. Da un lato, il classico vincolo esterno, nella forma di un occhiuto monitoraggio Ue sulle nostre scelte, dopo che sempre Bruxelles ha già orientato le decisioni di fondo sugli investimenti in direzione “green” e “digitale”: dunque, lo spazio di manovra di un ipotetico nuovo governo, successivo a un voto nel 2023, sarebbe fatalmente limitato. […] Il rischio del “pilota automatico” a me pare elevatissimo. Dall’altro lato, in senso uguale e contrario, c’è pure una sorta di inedito “vincolo interno” legato alla governance del Piano. Pochi se ne sono accorti (ne abbiamo scritto il vicedirettore della Verità Claudio Antonelli e io stesso, a più riprese), ma per il resto il silenzio è stato quasi generale. Infatti, leggendo il decreto-legge varato alla fine del maggio scorso sulla governance del cosiddetto PNRR e sulle semplificazioni, la domanda nasce spontanea: ma si sono resi conto (tutti: favorevoli e contrari, maggioranza e opposizione) del peso e dell’estensione dei superpoteri che hanno consegnato al governo? Leggendo l’articolato, si ha la sensazione netta di una sorta di “commissariamento della Repubblica” che, verticalizzando in modo ultra-accelerato, consegna al governo centrale e ai suoi apparati una specie di potere di vita e di morte su gran parte di ciò che accadrà nell’Italia dei prossimi 5-6 anni. […]

Come non ricorrere a fonti anglofone, vien da pensare, se il liberalismo ortodosso italiano descriveva questo PNRR come un “capolavoro del neoliberismo” (Il Foglio, 24 aprile 2021), ancorato com’è ad una visione gerarchica, statalistico-organicistica, in cui l’autoritarismo burocratico ha un ruolo chiave nel garantire la disciplina e la mortificazione degli italiani che, come ironizza efficacemente Capezzone, affidati a se stessi, “rischierebbero di passarla liscia”. Un “tic ideologico”, questo del vincolo esterno, una “mentalità”, un “mindset”, di cui sarebbe “medaglia d’oro” la sinistra, sia nella forma de “i comunisti (ex, neo e post)” sia de “la vecchia sinistra democristiana, a sua volta nemica della competizione e del mercato”, che non si sa se ami “il vincolo esterno perché è una scorciatoia per imporre più tasse”, o se punti “sugli incrementi fiscali sapendo già che ciò soddisferà le giurie esterne chiamate a giudicarci”. Una sinistra che “nella sua corsa al vincolo esterno, non si accontenta più delle bacchettate europee, ma ne cerca anche altre ad esempio dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse.”

Va da sé che Capezzone – nonostante l’aspetto giovanile e la vivacità intellettuale, un liberale di lungo corso – sa benissimo che le responsabilità per quel che egli definisce “autorazzismo” non sono tutte della sinistra antimercato, e che il vincolo esterno ha il suo locus classicus in una personalità dalle eccellenti credenziali di anticomunista quale Guido Carli. Ed ecco allora il motivo cui si accennava all’inizio, ecco l’implicita requisitoria contro l’ortodossia liberale italiana, contro coloro che, denigrando gli italiani e augurandosene la sottomissione a nazioni estere o organismi sovranazionali, hanno posto l’Italia in una condizione di impotenza dinanzi all’imposizione dell’agenda progressista di pianificazione economica ecologista; ecco l’implicita requisitoria contro l’anti-italianismo dei localisti, che hanno prodotto una nuova ondata di centralizzazione, dacché, grazie al Quirinale “Garante dei rapporti con l’Europa” secondo Gianfranco Pasquino, i ministeri romani sono il più affidabile implementatore dell’agenda brussellese.

Ad un liberalismo italiano complice, Capezzone offre insomma l’occasione di un opportuno riazzeramento. La più fondata delle critiche che gli si possa avanzare è che, nel privilegiare voci anglofone, abbia ignorato un patrimonio culturale non del tutto da rottamare, e che, in quanto italiano, potrebbe meglio essere d’esempio: personalità quali quella di Maffeo Pantaleoni, che, pur godendo della patente rilasciata dal liberalismo ortodosso, sono particolarmente interessanti per la nuova destra: oltre ad essere tutto quel che l’IBL descrive, egli fu un nazionalista e ministro delle finanze a Fiume per il d’Annunzio, nonché feroce critico della BCI, Banca Commerciale Italiana, che di italiano aveva solo il nome, trattandosi, in quella giovane Italia di fine ottocento, in bilico tra imperi centrali e Intesa, di un’arma imperialistica della caratteristica penetrazione economica e politica tedesca. Mutatis mutandis, l’Italia del nostro tempo.

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