Perché il blocco dei licenziamenti va rimosso: bloccare retorica e ideologia

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Riprende la discussione sul blocco dei licenziamenti, la cui prima scadenza è al 30 giugno e la seconda a fine ottobre, e si torna quindi ad affrontare il tema tra gli esperti del settore e non solo, su quello che dovrebbe essere un diritto riconosciuto e tutelato dalla Costituzione: la libertà di iniziativa economica privata.

Cerchiamo di vederci più chiaro. Fino al 30 giugno, e salvo proroghe sulle quali si è aperta una trattativa, il licenziamento è legittimo solo se fondato su motivi disciplinari, oppure in caso di cessazione di un appalto oppure in caso di superamento del cosiddetto comporto per malattia: diversamente, vige un blocco totale con sospensione della legge 604/1966. Dopo quella data sarà possibile, forse, tornare alla facoltà di licenziare ma solo per le imprese che posso utilizzare la Cassa Integrazione – prevalentemente il settore industria – e dal 1° novembre si potrà estendere tale facoltà anche alle altre, ovvero tutti i restanti settori merceologici.

La questione sul piano giuridico è tutta qui. Sul piano politico ed economico, invece, si assiste ad una retorica senza confini, e priva di una vera ragion d’essere, atteso che basterebbe avere senso pratico e conoscere un minimo la situazione economica generale per rendersi conto che una difesa sulle barricate non serve: prolungare il blocco dei licenziamenti sarebbe un errore, e gli effetti molto duri di questo stop imposto nei mesi appena trascorsi si inizierà a far vedere a breve, quando si avvieranno i tavoli per i licenziamenti collettivi da parte di tutte quelle aziende che non sono riuscite (molto semplicemente) a recuperare redditività.

Perché a prescindere dalle legittime posizioni d’ognuno, il blocco dei licenziamenti ha prodotto come unico risultato una maggiore povertà delle imprese che, dovendo fare fronte ad una profonda e purtroppo lunga crisi economica, non hanno potuto ridisegnare la propria struttura; modificare i ruoli, ridefinire interi reparti, esternalizzare servizi, infatti, può richiedere la dolorosa scelta di mettere mano al proprio organico poiché, diversamente, la strada rischiosa che si intraprende è quella di essere legati da costi non più sostenibili. Andando incontro alla chiusura.

In momenti di crisi l’impresa si alleggerisce e, una volta superata la fase di flessione, può tornare ad assumere. Questo accade in tutti i cicli economici, ed è ancora più evidente in questo momento ove molti settori hanno dovuto ripensare le proprie strategie economiche, gli investimenti fatti e andati perduti, le risorse non utilizzabili e non utilizzate, le commesse ferme in magazzino, e quanto altro.

Per alcuni sembra che l’imprenditore viva di un godimento intimo ogni volta che si accinge ad un licenziamento, forse dimenticando che il medesimo non ha alcun interesse a lasciare a casa i propri dipendenti perché quando li assume lo fa con l’intento di mantenere il personale e renderlo performante: per fare questo, egli investe risorse (anche nella formazione) e non si comprende bene quale piacere solipsistico dovrebbe provare nel dedicare tempo a riorganizzare e tagliare il personale. È quindi una posizione ideologica quella sui licenziamenti, seppur il blocco sia sostenuto soprattutto da chi – a tempo opportuno – non mosse neppure il sopracciglio per difendere l’articolo 18 dall’attacco portato dalla Legge Fornero e poi dal Jobs Act.

Forzare la stabilità occupazionale delle imprese ha un sapore antico, riporta agli anni Settanta, e finisce per appiattire l’iniziativa privata, rendendo davvero poco appetibile il mercato italiano per chi vuole investire.

Torniamo ad essere razionali, possibilmente allontanandoci dalla retorica. Il licenziamento rappresenta una facoltà, o meglio ancora un diritto, dell’imprenditore a meno di non voler abrogare l’articolo 41 della Costituzione e portare a compimento quello che potrebbe configurarsi come una vera e propria espropriazione forzata dei mezzi finanziari; al contempo, nulla vieta di tornare a parlare seriamente di tutela reintegratoria in caso di recesso illegittimo o immotivato, a patto di saper bilanciare gli interessi in gioco tra cui rientrano (ovviamente) anche quelli dell’impresa. Solo in questo modo si potrà garantire la crescita economica e quindi il benessere collettivo.

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