La Finlandia ha annunciato anche ufficialmente la sua intenzione di aderire alla Nato. Da notare: la Finlandia fa già parte dell’Unione europea, ma non ha alcuna intenzione di attendere la costituzione di un esercito comune europeo. Ha chiesto l’adesione alla Nato: quando il gioco si fa duro, è l’Alleanza Atlantica che inizia a giocare, non l’Ue.
Un eurolirico spiegherà che è proprio per colpa di questo atteggiamento “individualista” che manca un esercito comune europeo. E che, se ci fosse, garantirebbe una protezione uguale o superiore a quella che attualmente solo la Nato può offrire. Ma è un discorso capzioso: l’Ue ha avuto almeno trent’anni di tempo per pensare alla costituzione di una difesa comune, quantomeno di una difesa integrata, ma non lo ha mai fatto. Non perché “sabotata” dagli Usa, che semmai avrebbero tutto l’interesse, se non altro per risparmiare, a fare dell’Europa una seconda gamba autonoma nella difesa euro-atlantica (si veda a questo proposito “La Grande Scacchiera” di Zbigniew Brzezinski, anno 1997). Ma perché non la vuole.
Che segnali sono giunti dalle maggiori potenze europee occidentali, in questi mesi? Dopo la prima risposta corale contro l’invasione russa, doverosa e spinta dall’emozione, riemerge la solita tendenza a dividere il blocco occidentale e proporre l’appeasement con la Russia. Lo si nota anche in Italia, con il cambio di linguaggio del partito più europeista di governo, il Partito democratico: da De Benedetti (“oggi noi europei non abbiamo alcun interesse a fare la guerra a Putin”) a Delrio (“Le parole spese dall’Inghilterra o da chi pensa che la pace consista nel piegare Putin mostrano una grande irresponsabilità. Gli americani dovrebbero stare attenti a non usare questi toni. Draghi dovrebbe dire questo”), passando per lo stesso Letta (“L’idea di vincere, di battere l’avversario non mi appartiene”).
Tutte queste reazioni sono il riflesso del discorso pronunciato da Emmanuel Macron, il primo sulla guerra dopo la sua rielezione: “Non dobbiamo cedere alla tentazione dei revanscismi. Domani avremo una pace da costruire” e “dovremo farlo con Ucraina e Russia attorno al tavolo. Ma questo non si farà né con l’esclusione reciproca, e nemmeno con l’umiliazione”. Macron ha anche ribadito che l’Ucraina impiegherà decenni ad entrare nell’Ue. Entrambe le affermazioni sono vere, praticamente lapalissiane. Se si fa la pace, si dovrà necessariamente farla con la Russia e, a meno di non voler cambiare tutti gli standard dell’Ue, l’Ucraina impiegherà decenni prima di entrarci. Quel che è significativo è il momento: dirlo adesso, vuol dire lanciare un segnale che l’Ue pensa alla pace negoziata con la Russia e non alla “vittoria”, concetto che invece emerge in tutti gli ultimi discorsi di Joe Biden e di Boris Johnson. Per il governo britannico, in particolar modo, la vittoria sul campo dell’Ucraina, nella sua giusta guerra difensiva è “un imperativo” (termine usato da Liz Truss, segretaria agli esteri) per preservare l’ordine internazionale. L’accettazione di un cambiamento di confini, a seguito di una guerra di aggressione russa, spianerebbe invece la strada alla legge del più forte nelle relazioni internazionali.
La differenza fra la Anglosfera e l’Europa occidentale continentale è insomma sempre più evidente, come lo era ai tempi della guerra in Iraq nel 2003. Ma se allora era giustificata dal tipo di conflitto, fuori dall’area europea e “per scelta” (si doveva decidere se lanciare o meno un intervento internazionale, ma nessuno rischiava di essere invaso), oggi la differenza, anche se meno marcata, stride molto di più. L’Europa occidentale continentale, contrariamente all’Anglosfera, ha deciso di rinunciare all’uso delle armi, anche di fronte ad un Paese vicino invaso militarmente. Non è il gas russo l’origine delle scelte europee per l’appeasement. La Francia, ad esempio, prima potenza nucleare civile, non ha bisogno di gas o petrolio, non è ricattabile da Mosca. Eppure spinge per il compromesso, invece che per la resistenza. È proprio la rinuncia alla guerra che ha portato l’Europa occidentale a disarmarsi, politicamente, moralmente e militarmente. Politicamente: accettare il compromesso purché eviti il conflitto o vi ponga fine al più presto. Moralmente: se è solo la pace che conta, anche la distinzione fra aggressore e aggredito, nonché il rispetto delle norme internazionali, passano in secondo piano. Militarmente: chiunque voglia vincere le elezioni, salvo pochissime eccezioni, deve promettere un taglio alla spesa militare. Fino a quest’anno, la Germania stessa era uno dei Paesi più disarmati del mondo occidentale.
Però diversa è l’esigenza di difesa in quei Paesi dell’Ue, come la Polonia, le Repubbliche Baltiche, la Finlandia e la Svezia, che sono direttamente esposte alla minaccia russa, perché, banalmente, sono confinanti ed iniziano a sentire il fiato del predatore sul collo. La loro scelta è quella di aggrapparsi maggiormente alla Nato, non quella di attendere che l’Ue cambi mentalità e percezione della guerra e si doti di una difesa comune. È Boris Johnson, il volto della Brexit, a recarsi in Svezia e Finlandia per discutere di una maggior cooperazione militare, anche in vista del loro ingresso nella Nato. Paradossalmente, a pensare concretamente alla difesa dei due membri dell’Ue che si sentono più minacciati è proprio il Paese che ha rotto con l’Unione. Son cose che dovrebbero far riflettere.