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Perché le dittature mediorientali non vanno mai rimpiante: falso che garantiscano stabilità

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“L’alternativa alla dittatura è il caos”, “L’unica alternativa alla dittatura è la guerra civile”, “L’alternativa ad Assad sono gli jihadisti”, “Non ripetiamo lo stesso errore commesso in Libia, dove abbiamo eliminato Gheddafi consegnando il paese al caos e ai terroristi islamici”. Manca qualcosa? Bene o male sono questi gli argomenti della classe colta italiana, quando si occupa della Siria e, in genere, del Medio Oriente e Nord Africa. Dal generale in pensione all’ex ambasciatore, dall’editorialista all’accademico, tutti coloro che si occupano di relazioni internazionali su questo punto sono d’accordo. Meglio la dittatura. Lo stesso coro unanime lo abbiamo sentito alla vigilia e poi all’indomani del piccolo attacco anglo-franco-americano contro installazioni chimiche in Siria. Benché non fosse affatto un’operazione di regime change è stata accolta da commenti contro la logica dell’esportazione della democrazia.

È vero che la dittatura genera stabilità? Questa proposizione generica è stata già smentita per l’Europa, almeno dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando furono dittature a far scoppiare il conflitto e, al tempo stesso, a scatenare stermini nei territori che occupavano, con una ferocia e una metodicità che non avevano precedenti. La lezione è stata appresa in Europa occidentale, ma gli stessi argomenti adottati in difesa dei dittatori sono tuttora usati al di fuori del mondo occidentale. Così nei Balcani, negli anni ’90, si rimpiangeva Tito, oggi nel Medio Oriente allargato si rimpiangono Saddam e Gheddafi e, con la stessa logica, si sostiene Assad. A torto o a ragione? A torto, in tutti i casi.

Tito, nella sua Jugoslavia, commise una serie di stermini di massa, fino a raggiungere la considerevole cifra di 1 milione e 172mila vittime. Non vittime di guerra, sia chiaro: vittime disarmate, nemici di lingua (fra cui gli italiani nelle foibe), di censo, di classe, di partito, di corrente di partito. Nel giro di due decenni, nessuno venne risparmiato dalle purghe successive. I due decenni successivi furono di calma apparente, ma il germe della violenza di massa era evidentemente dilagato: rancori, desideri di vendetta, abitudine a considerare il vicino come un reale o potenziale nemico interno. Un milione di morti è pari a 15 volte tanto il numero delle vittime di tutte le guerre balcaniche negli anni Novanta, civili e militari, di tutte le parti in guerra. Era davvero da rimpiangere Tito?

Saddam Hussein, in Iraq, ha assassinato circa mezzo milione di suoi cittadini, in fasi successive, incluso l’uso di armi chimiche contro civili curdi. Mezzo milione di vittime è circa tre volte tanto il numero totale dei morti nella guerra in Iraq e nella successiva guerra civile, tuttora in corso. C’è davvero da rimpiangere Saddam? In Libia non abbiamo la cifra complessiva delle vittime di Gheddafi, del suo “terrore verde” (versione araba del terrore rosso). Due libici su dieci erano comunque impiegati nella sorveglianza interna, un grado di controllo totalitario pari solo alla Corea del Nord. In un singolo episodio della repressione, il massacro della prigione di Abu Salim del giugno 1996, vennero trucidati 1270 prigionieri. Questo dà l’idea delle dimensioni del crimine. Non sappiamo ancora, né lo sapremo fino alla fine della guerra civile, quanti siriani siano stati assassinati dal regime di Assad e quanti, invece, dai vari gruppi di insorti. Sappiamo però che il regime di Hafiz al Assad, padre di Bashar, l’attuale dittatore, compì il singolo più grande massacro nella storia recente del Medio Oriente: fece 20mila morti in meno di un mese, nella città insorta di Hama, nel febbraio del 1982. Allora come oggi, un’opinione pubblica intenta a puntare il dito solo contro Israele (alla vigilia del suo intervento in Libano) non si accorse di nulla.

In tutti questi casi, la dittatura passa per “stabile” perché nessuno conosce (o nessuno vuole conoscere) la sua violenza interna. Su questo silenzio, praticamente ogni Stato è complice. Non appena si affronta l’argomento, si viene tacciati di far propaganda per conto degli Usa e improvvisamente corrono i “pompieri” dell’informazione a smentire cifre e attendibilità delle fonti. Ma in base a ciò che è acclarato, in tutti questi casi le dittature, nei periodi di “pace” hanno provocato più vittime delle guerre civili che hanno dilaniato successivamente i loro Stati. Cinicamente, i nostri opinion leader e decisori, hanno sempre preferito la violenza interna, purché tenesse a freno l’instabilità di un conflitto. Ma è una scelta logica? Evidentemente no. Perché la guerra civile è diretta conseguenza della violenza interna delle dittature. La repressione armata funziona finché è un unico centro di potere che tiene il pallino della situazione. Non appena si apre una crepa (le primavere arabe, nel caso della Libia e della Siria, la guerra al terrorismo nel caso dell’Iraq), il fronte si spacca e anche l’opposizione ricorre alla violenza. Non c’è più una parte che subisce e l’altra che infierisce, ma due parti che si combattono. Ignorando la ferocia della repressione armata precedente, è impossibile capire l’inumanità con cui sono state combattute le guerre civili.

Le dittature, almeno, ci aiutano a combattere il terrorismo? Così si pensa, generalmente, dopo aver assistito all’ascesa dell’Isis in Siria, Iraq e Libia dopo che i dittatori locali sono stati spodestati o sono entrati in crisi. Ma anche questa convinzione è distorta da un uso selettivo della memoria. Prima di Bin Laden, il volto internazionale del terrorismo era proprio Gheddafi, che con gli attentati di Berlino e Lockerbie ha messo la firma su alcuni dei peggiori fatti di sangue subiti dall’Occidente prima di Al Qaeda. Negli anni 90, fino alla sua caduta nel 2003, Saddam Hussein era dichiaratamente il maggior sponsor del terrorismo palestinese. Gli Assad (prima Hafiz, poi Bashar) hanno sostenuto Hezbollah, Hamas e hanno fornito una sicura rotta di passaggio e un rifugio a tutte le sigle terroristiche che hanno combattuto in Iraq contro gli anglo-americani (e i civili iracheni). Non stupisce che, in tutte queste realtà, l’indebolimento del dittatore provochi la proliferazione di sigle terroristiche: c’erano già. E in alcuni casi, come l’Isis, sono formate da ex ufficiali, militari e agenti del vecchio regime ormai decaduto.

C’è una regola generale? Sì, secondo il maggior collezionista di dati sui crimini di massa, il compianto politologo Rudolph Rummel (1932-2014), ad una maggior concentrazione di potere, corrisponde un maggior livello di violenza interna. Per Rummel, che ha studiato tutti i crimini del Novecento, questa è una costante storica. Parafrasando il liberale Lord Acton: il potere uccide, il potere assoluto uccide in modo assoluto. Chiedere più dittatura per avere stabilità, dunque, è come far spegnere un incendio da un piromane.

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