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Perché l’Europa ha bisogno di indipendenze

La questione catalana che anche in questi giorni sta vivendo passaggi intensi e per alcuni aspetti drammatici, riporta all’attenzione le questioni politiche legate alle appartenenze ed alle identificazioni in termini di nazionalità.

Le indipendenze nazionali sono state , in fondo, uno dei maggiori processi istituzionali del dopoguerra. C’erano poco più di cinquanta paesi indipendenti nel 1950; ce ne sono circa duecento oggi – ed in generale l’accesso di molti nuovi Stati al consesso delle nazioni viene letto come un elemento di progresso e modernizzazione.

E’ interessante notare, tuttavia, come il diffuso entusiasmo per l’indipendentismo della cultura mainstream sembri, però, limitarsi a tutto ciò che avviene fuori dai confini “di casa nostra”. In altre parole tendiamo ad avere slanci di empatia per le autodeterminazioni “altrui”, ma siamo molto restii a concepire che anche in Occidente ci possa essere bisogno di affermare la possibilità delle comunità politiche di deliberare sul loro futuro.

Se ci pensa, siamo cresciuti con la diffusa vulgata progressista che celebrava – quasi sempre a torto – l’emancipazione dei paesi africani dal colonialismo europeo; abbiamo fatto il tifo – noi liberali e conservatori – per le indipendenze dei paesi baltici e per la dissoluzione dell’URSS, della Cecoslovacchia e della Yugoslavia; abbiamo assistito, anche in anni recenti, all’indipendenza di Timor Est e del Sudan del Sud; riscontriamo in giro un consenso più o meno ampio, o per lo meno un’attenzione, quando l’argomento è il diritto all’autodeterminazione del Kurdistan o del Tibet.

Tuttavia, quando la discussione cade sul Québec o sulla Scozia o sulla Catalogna – in cui in questi mesi si sta portando avanti una battaglia per certi versi eroica per affermare il diritto di decidere – la maggior parte degli analisti immediatamente si irrigidisce; e quello che colpisce è che ciò non avviene solamente negli ambiti più legati ad assunti ideologici più conformisticamente statalisti e centralisti, ma anche in quegli ambienti “liberaldemocratici” per altri aspetti sensibili alle questioni di libertà e di democrazia.

Insomma sono proprio in parecchi a guardare con fastidio le tematiche dell’indipendentismo catalano e come fumo negli occhi la richiesta di una maggioranza dei catalani di un referendum riconosciuto per decidere se il loro paese debba restare parte della Spagna o costituirsi in una nuova nazione europea indipendente – la richiesta dei catalani di “més democracia” (più democrazia). Ma come? Non c’è già la democrazia? Non fornisce già lo Stato spagnolo abbastanza strumenti di partecipazione alla scelta collettiva?

La Spagna non è la Cina, si dice; non è nemmeno la Turchia. La Spagna è già una democrazia “compiuta”, con il timbro ufficiale dell’Unione Europea.

Insomma, l’idea base che conduce molti a guardare con sufficienza, se non apertamente a ridicolizzare, le istanze catalaniste è che il modello di democrazia così come realizzato in Occidente rappresenti un traguardo ultimo e non ulteriormente perfettibile – un contesto istituzionale neutro e pluralista, all’interno del quale tutte le istanze politiche legittime possono essere espresse. Le grandi entità statali o sovranazionali costituiscono, in questa ottica, uno stadio finale di maturità sociale e civile che non rendono più necessaria la ricerca di “altro” – nemmeno di forme di espressione della volontà popolare diverse da quelle previste. Anzi solo un retrogrado, un irresponsabile o un provocatore potrebbe pensare di rompere il giocattolo, introducendo temi come quelli dell’autodeterminazione, buoni solo per contesti meno evoluti e sviluppati.

Ci sono varie ragioni, tuttavia, per cui questa posizione è semplicistica, se non apertamente strumentale.

Innanzitutto nessun quadro istituzionale, per quanto democratico, è culturalmente neutro. Uno Stato non è solamente un insieme di asettiche regole formali, ma si basa anche su un insieme di elementi concreti o simbolici che, nei fatti, costituiscono un’identificazione culturale e morale collettiva. Non sono culturalmente neutre, ad esempio, le scelte di politica linguistica, come non lo sono tutte le scelte legate alla costruzione di una memoria collettiva – quali feste nazionali celebrare, quale storia ricordare e così via.

Solo chi non sa niente della questione belga o nordirlandese o altoatesina può pensare che temi quali quelli della toponomastica o dei diritti linguistici siano irrilevanti per le popolazioni e che ad individui moderni, maturi e democratici non debba fare alcuna differenza dove passa un confine.

Per un abitante di Girona essere parte di una Catalogna indipendente o di una grande Spagna non è ininfluente. La differenza tra le due opzioni è quella che passa tra il vedere riconosciuta pienamente la propria dignità nazionale o il vedersi attribuire patenti di slealtà rispetto ad un’identità spagnola percepita come straniera.

La vera questione, però, è che la democrazia delle grandi entità statali o sovranazionali sta fallendo sul piano pratico degli effettivi esiti.

Gli incentivi all’azzardo morale ed all’orientamento al breve periodo, insiti nella democrazia su larga scala, stanno conducendo ad una graduale degenerazione della qualità della scelta pubblica e con essa di molti indicatori strutturali degli Stati europei.

Insomma, la democrazia europea non va bene; anzi tra alto debito, sistemi pensionistici disfunzionali, inflazione normativa e vessazione fiscale delle classi produttive, l’Europa pare sempre più segnare il passo, rispetto alle grandi sfide della globalizzazione.

Se la democrazia europea è su questa china, allora c’è un’altra importante ragione per la quale è utile guardare con simpatia alle rivendicazioni autonomiste ed indipendentiste, siano esse in Catalogna, in Scozia o nelle Fiandre od in qualsiasi altra area – quella di provare a scongiurare che le cose finiscano nell’unico modo in cui, dati i presupposti attuali, sono destinate a finire, cioè con un profondo declino economico e culturale.

La nascita di nuove “start-up nations” serve per provare a produrre esiti diversi; e non importa da questo punto di vista sei i catalani sono troppo “di sinistra”, come taluni li accusano, o se i fiamminghi sono troppo “di destra”. Il nostro continente ha disperatamente bisogno di esiti diversi, di qualsiasi colore, perché solo la concorrenza fiscale e normativa è in grado di ripristinare dinamiche politiche, economiche e sociali più sane di quelle che stiamo attraversando nella nostra epoca. Lasciarsi trasportare, con rassegnazione, dalla forza di un’unica corrente non è più, per gli europei, un’opzione praticabile..

In definitiva, anche le comunità europee hanno bisogno del diritto all’autodeterminazione ed in definitiva di un nuovo ulteriore strumento di espressione della propria volontà. Serve che gli europei possano cominciare a votare non solo sul tradizionale bipolarismo destra-sinistra, ma anche sul bipolarismo tra centralismo e decentralizzazione, destinato, nei prossimi anni, ad acquisire sempre più rilevanza.