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Perché l’Italia gioca in Serie B: le preclusioni ideologiche e la tara europeista che bloccano la nostra politica estera

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L’appartenenza all’Ue non ha fatto venir meno gli interessi nazionali e non lo farà nel prossimo futuro

Si dice spesso che l’Italia è una potenza geopolitica per la sua posizione geografica, nel mezzo del Mediterraneo e quasi totalmente bagnata dall’acqua. Una mezza verità, così come è una mezza verità che il Mediterraneo che abbiamo davanti sia un Mare Nostrum.

Spieghiamoci meglio: l’Italia è sì nel mezzo del Mediterraneo, è sì bagnata per tre quarti dal mare, ma è oggi come oggi essenzialmente una potenza bloccata. Prima di tutto, il mare in cui è immersa l’Italia è come una grande piscina, i cui ingressi – Suez e Gibilterra – sono controllati da altre nazioni. Dei veri e propri “colli di bottiglia”, che nei fatti – pur dovendo ovviamente ricordare il diritto al libero passaggio inoffensivo previsto anche della Convenzione di Montego Bay del 1982 – sono in mano a Paesi stranieri. Quel mare non è oggi molto nostrum: basti qui menzionare l’influenza odierna dei francesi in diverse aree del Nord Africa, ovvero in Paesi che per l’Italia possono essere considerati come veri e propri vicini di casa. Influenza che oggi mostra il suo lato più drammatico in Libia, ma anche nel Sahel, dove la missione militare italiana è di fatto fallita per l’opposizione di Parigi. Per non parlare dell’influenza della Turchia, dell’Egitto e di una Russia sempre più intenzionata ad “affacciarsi” sul Mediterraneo.

In questo contesto così chiuso, quali opzioni ha l’Italia? Teoricamente (ripetiamo: teoricamente) sarebbero almeno tre:

1) un Paese leader proiettato verso il continente africano: ma qui, come abbiamo visto, l’Italia è chiusa da interessi figli dell’epoca coloniale, dagli interessi nazionali dei Paesi africani e anche dal fenomeno migratorio, che divide drammaticamente le forze politiche italiane, tra ideologhi dell’apertura totale e della chiusura totale. Senza entrare nel merito, si tratta di un dibattito molto conflittuale che, se non arriverà ad una sintesi, non permetterà all’Italia di giocare una partita geopolitica;

2) la proiezione verso i Balcani, che oggi fondamentalmente si riassume con le pressioni di Roma per un allargamento dell’Ue anche ai Paesi dell’Est Europa che non ne sono ancora parte, tra cui Albania e Serbia. Anche qui una partita complessa, che si scontra con l’opposizione di alcuni partner Ue – come la Francia – con la percezione del fallimento degli allargamenti precedenti (già l’Ue a 27 fa fatica a sopravvivere, figuriamoci più larga) e con gli interessi tedeschi e turchi, naturalmente e storicamente portati ad esercitare una proiezione concorrente in quell’area;

3) la proiezione verso il Mediterraneo, inteso come Vicino Oriente. Qui, l’Italia però paga non solo la drammatica crisi libica (considerabile parte non solo del Nord Africa ma anche del Vicino Oriente), ma anche la percezione nazionale di poter essere un interlocutore di tutti, senza assumere posizioni chiare e forti. Non solo, con l’avvio del Conte bis, l’Italia paga anche ufficialmente una preclusione ideologica: quella sulle trivellazioni offshore.

Delle tre opzioni, nei fatti, solo la numero 3 sarebbe forse perseguibile, ma per farlo servirebbe avere chiaro cosa si vuole. In primis, superare la preclusione ideologica nel programma del nuovo governo giallorosso, il divieto di trivellazioni nelle acque territoriali italiane o nei fondali (12 miglia di acque territoriali, più teoricamente 200 miglia di fondo marino). Un’area che potrebbe contenere importarti risorse energetiche che, se non sfruttate dall’Italia, saranno sfruttate dai vicini, come quelli nel Mar Adriatico (come la Croazia). Secondo, serve mettere in chiaro le cose con la Turchia, Paese che attualmente tenta di imporre la sua sovranità sulle acque territoriali di Cipro, a scapito proprio di Paesi come l’Italia che hanno – con Eni – dei diritti di esplorazione (in questo caso, alleati dell’Italia sarebbero anche i francesi e potenzialmente gli americani, anche se i turchi sembrano guardarsi bene dall’andare a contestare blocchi di esplorazione assegnati a compagnie statunitensi da Nicosia). Terzo punto: i gasdotti. Qui l’Italia potrebbe diventare una vera e propria potenza, se solo scegliesse – anche in questo caso – di superare i blocchi ideologici e di dire sì non solo al TAP, ma anche all’Eastmed. Una scelta che, diplomaticamente, farà sicuramente infuriare Ankara e Mosca, ma che renderebbe l’Italia un hub energetico e rafforzerebbe i legami con Paesi importanti come Israele, Grecia, Cipro ed Egitto, con proiezioni commerciali capaci di arrivare fino alle monarchie sunnite del Golfo Persico (soprattutto se accompagnate da nuovi accordi portuali).

Come suddetto, sono scelte che provocherebbero l’irritazione di alcuni partner, ma che ci permetterebbero anche di uscire da una ambiguità geopolitica, che oggi costringe l’Italia ad una partita di Serie B quasi ovunque. D’altronde, la Germania ha chiesto il permesso a Roma per avviare il Nord Stream e per permettere a Mosca di continuare a costruire liberamente il Nord Stream 2? La Francia ha chiesto il permesso a Roma quando ha deciso di spingersi con i confini marittimi quasi fino alla Sardegna? Parigi ha chiesto il permesso dell’Italia per bloccare la missione in Sahel o per finanziare pesantemente Haftar in Libia? Macron ha chiesto il permesso di Gentiloni per rivedere l’accordo fra Fincantieri e Stx? Se domani i soldati americani lasciassero l’Italia, Berlino e Parigi chiederebbero veramente a Roma di essere partner – dello stesso livello – in un eventuale esercito europeo? Tante domande, la cui risposta è sempre la stessa: no.

Per questo è fondamentale che l’Italia tenga conto che l’appartenenza all’Ue non ha fatto venir meno gli interessi nazionali e non lo farà nel prossimo futuro. Darsi una identità geopolitica non deve significare voler arrivare allo scontro, ma chiarire innanzitutto a se stessi cosa si vuole, che posto potremmo avere nel prossimo ordine internazionale, dove il tutti contro tutti rischia di essere ancora più drastico di quello che abbiamo vissuto prima del coronavirus

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