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Perché l’Occidente non deve scusarsi per i vent’anni di presenza in Afghanistan

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L’inferno a Kabul non ha limiti. La ressa creatasi all’aeroporto Karzai, ormai unica via di fuga verso il mondo esterno, ha permesso anche a due attentatori suicidi, probabilmente dello Stato Islamico, di farsi saltare in mezzo alla folla. Mentre si tirano le somme della catastrofe, è lecito chiedersi: perché scappano? Perché rischiano la vita, aggrappati a un carrello di un aereo pur di volare via, o si mettono in fila pur sapendo, da giorni, che lo Stato Islamico, nemico dei Talebani, oltre che dell’Occidente, minacciava attentati?

La risposta, per essere data, richiede un certo grado di franchezza: l’Occidente non fa così schifo come sembra. Perché, a giudicare dai commenti che vanno dal Manifesto che rispolvera il suo anti-imperialismo degli anni 70, a MicroMega, rivista patinata, fino al sedicente medievale Massimo Fini, passando per Sergio Romano, espressione di un centro “realista”, tutti paiono concordi su un punto: non si doveva nemmeno andare in Afghanistan. Anzi, ora che ce ne andiamo, dobbiamo chiedere scusa per i trascorsi 20 anni.

La sinistra chiede a tutti coloro che avevano votato per l’intervento di fare un mea culpa, perché, dicono, l’Occidente è il vero epicentro del male del mondo, i suoi diritti e la sua democrazia sono (come riteneva già Marx) un paravento degli interessi dei capitalisti. Ogni guerra dell’Occidente è, per definizione, una guerra di sfruttamento dei ricchi ai danni del mondo povero. Quella dei Talebani è dunque una rivincita di un popolo povero. Per la destra, invece, i Talebani sono tutto sommato da ammirare, perché restano nell’antichità e hanno sconfitto l’impero post-moderno. Ora vietano musica e televisione, il consumismo e i contatti col mondo esterno e quindi, a destra, non pochi reazionari si chiedono se non sia il caso di imitare il loro modello, pur rispettando le debite differenze religiose e tradizionali. Dal centro realista, invece, viene la solita predica contro gli impegni militari umanitari, specialmente se così lunghi: meglio gli equilibri, dettati da criteri “geopolitici”. L’Occidente stia nel suo brodo, insomma.

Tutte queste analisi saltano a piè pari l’origine della lunga guerra, omettendola o minimizzandola. Perché in Afghanistan non siamo andati per fare l’impero e neppure per scopi umanitari. Se fossimo realmente andati per motivi umanitari, saremmo dovuti partire nel 1996, quando i Talebani presero il potere e imposero il loro totalitarismo da incubo. Se fossimo partiti con l’idea di civilizzarli, ci saremmo dovuti muovere almeno nel marzo del 2001, quando l’Emirato Islamico distrusse i Buddha di Bamyan, il gesto simbolico più eclatante dell’oscurantismo talebano. Invece l’Occidente ha tollerato questo ed altro, voltando lo sguardo, consapevole che “non si fanno le guerre per esportare i diritti”. Ci siamo mossi solo dopo l’11 settembre, solo quando gli Usa sono stati attaccati in casa e l’aggressione veniva dall’Afghanistan, allora base principale di Osama bin Laden. La guerra era difensiva, non espansionista.

Il conflitto è iniziato solo dopo l’inutile tentativo di chiedere un’estradizione, impossibile per un regime che protegge i suoi fratelli jihadisti e disconosce la legittimità degli Stati infedeli. Nel condurre le operazioni, gli Usa non sono stati arroganti, non hanno “invaso” nulla: hanno appoggiato militarmente l’Alleanza del Nord, una delle fazioni di una guerra civile che era già in corso. È difficile trovare un esempio migliore di guerra giusta. Abbiamo semmai perso, senza onore, perché non abbiamo saputo identificare più il nemico, non lo vogliamo neppure nominare. Se solo pronunci le due parole “Islam radicale” vieni bacchettato sulle dita dal primo esperto di relazioni internazionali, dai multiculturalisti (che ritengono l’uso di quella definizione come una forma di razzismo e una discriminazione di tutti i musulmani) e dai politici che gli danno ascolto. Eppure l’Islam radicale, quello dell’11 settembre, esisteva ed esiste tuttora.

Ce lo ricorda a chiare lettere Tony Blair (qui in italiano), il premier britannico che diede avvio all’intervento assieme a George W. Bush (che invece resta nel suo silenzio tombale):

I politici occidentali non riescono nemmeno ad accettare di chiamarlo “Islam radicale”. Preferiamo identificarlo come un insieme di sfide sconnesse, ciascuna da affrontare in sede separata. Se l’avessimo definita una sfida strategica, e l’avessimo vista nel suo insieme e non frazionata in parti, non avremmo mai preso la decisione di ritirarci dall’Afghanistan. Il nostro pensiero è impostato male in rapporto all’Islam radicale. Il comunismo rivoluzionario lo abbiamo riconosciuto come una minaccia di natura strategica, che ci ha richiesto di affrontarlo sia ideologicamente che con misure di sicurezza. Durò più di 70 anni. Per tutto quel tempo, non ci saremmo mai sognati di dire: “Beh, ce ne siamo occupati da molto tempo, dovremmo semplicemente arrenderci”.

E qui Blair pecca di ottimismo, perché in Italia, a parlare di “minaccia del comunismo rivoluzionario” si rischia la carriera. Però, in ogni caso, l’ex premier si chiede: “Questo è ciò che dobbiamo decidere ora a proposito l’Islam radicale. È una minaccia strategica? – si chiede Blair – Se è così, come si uniscono coloro che vi si oppongono, anche all’interno dell’Islam, per sconfiggerlo?”

La risposta che dà la maggior parte dei leader odierni è: “no, l’Islam radicale non esiste e dunque non costituisce una minaccia strategica per l’Occidente”. È però anche solo difficile pensare che Blair abbia torto e i suoi successori abbiano ragione. Perché, come dimostra l’esperienza del terrorismo nel 2015-16, la nascita di uno Stato Islamico fra Siria e Iraq ha costituito un pericolo in tutto il mondo. Cosa potrebbe succedere dopo la nascita di questo Emirato Islamico in Afghanistan? Riusciremo ancora ad alienarci al punto da considerare ogni attentato come il “gesto di un folle”? E fino a che punto potremo negare l’evidenza?

Si dà troppo per scontato, poi, che 20 anni di presenza occidentale in Afghanistan, oltre a non sconfiggere il terrorismo, abbiano portato solo danni e nessun beneficio. Anzi, abbiano accresciuto il rancore nei nostri confronti e spinto molti afghani ad abbracciare la causa talebana. Eppure, a raccontarci la realtà sul campo non c’è solo il defunto Gino Strada, o i suoi medici più ideologizzati. Ci sono anche numerosissime testimonianze spontanee di militari e civili italiani che, in Afghanistan, si sono concretamente resi utili, riportando un minimo di sicurezza e permettendo alla gente del posto di tornare a vivere. A questo proposito, scrive Blair:

Lo abbiamo fatto (il ritiro, ndr) nella consapevolezza che, sebbene peggio che imperfetti, e sebbene immensamente fragili, negli ultimi vent’anni anni ci sono stati guadagni reali. E per chiunque lo contesti, si leggano i lamenti strazianti di ogni settore della società afgana su ciò che temono andrà perduto. Guadagni nel tenore di vita, nell’istruzione in particolare delle ragazze, guadagni in libertà. Non proprio quello che speravamo o volevamo. Ma non niente. Qualcosa che vale la pena di difendere, che vale la pena di proteggere. Lo abbiamo fatto quando i sacrifici delle nostre truppe avevano reso quelle fragili conquiste un dovere da preservare.

Ora di quei guadagni restano solo persone disperate, vite appese a un aereo straniero, pronte tutto pur di fuggire dall’incubo in cui, dopo venti anni (quasi una generazione), stanno ripiombando.