L’Unione europea è lungi dall’essere una creatura del liberalismo economico, come pretende di convincerci una sovrarappresentata minoranza euro-liberista italiana, e lungi dall’essere un motore di “crescita smithiana”. L’Ue è invece un’arma geopolitica franco-tedesca, prodotto di una visione del mondo profondamente illiberale e paranoica, e retta da una nomenklatura troppo devota alla propria secolare ideologia per avere il tempo di recepire le istanze altrui, se non opportunisticamente, per i propri scopi, dacché con la propria egemonia culturale ha elevato l’europeismo a valore morale condiviso più o meno inconsapevolmente anche dai “nazional-populisti”
“L’Europa rafforzi i confini esterni con una polizia di confine all’altezza”, dichiara il presidente francese Macron lo scorso 5 novembre. Quattro giorni dopo, in compagnia del cancelliere federale austriaco Kurz, fa circolare tra gli omologhi europei un testo nel quale auspica per integrare gli immigrati “l’insegnamento” di non meglio precisati “valori europei”, e sanzioni per le organizzazioni che “supportino contenuti ostili all’integrazione”. Il 10 novembre, la Commissione europea attacca Amazon su molteplici fronti, citando diversi pretesti; già in estate, il Financial Times riportava indiscrezioni secondo cui la Commissione europea avrebbe usato come pretesto l’art. 116 del TFUE per attaccare i Paesi membri con sistemi fiscali competitivi, in quanto rei di “distorsione del mercato unico”.
Si può dedurre, da questa serie di eventi, che i “centristi” abbiano recepito le istanze dei “nazional-populismi”? La risposta è no, a meno che si sia a tal punto interiorizzata la dottrina europeista da non accorgersi del carattere comune di tali proposte, e cioè di come tendano ad avvalersi di una percepita instabilità in diversi ambiti per conseguire nuove irreversibili cessioni di sovranità ad un Superstato europeo (conformemente a “la methòde Monnet”), o per consolidarne di vecchie.
Nel primo e secondo caso, solo ad un cieco può innocentemente sfuggire che la costituzione di una polizia europea di confine implica una scellerata cessione di sovranità nazionale, drammaticamente simboleggiata dal potere armato di un altro stato posto a guardia dei confini italiani. Confini rigorosamente determinati, giova ricordarlo, sono condizione di esistenza stessa di uno stato nazionale, ed il motivo per cui nel resto del mondo ancora razionale sono difesi con così tanta determinazione e prontezza. La sacralità dei confini nazionali, traduzione ideologica di questa realtà ben fondata, non può essere tutelata per via europea: avrete notato in queste settimane come l’isola di Kastellorizo, sacra per la Grecia, sia perfettamente sacrificabile per diversi suoi “partner” europei, ben lieti di saziare gli appetiti turchi con vivande altrui.
Peraltro, non si può che provare inquietudine dinanzi alla formula “valori europei” – non occidentali, non giudaico-cristiani, non liberal-democratici, ma “europei”. Formula che si presta cioè quasi letteralmente alla criminalizzazione di chiunque si definisca anti-europeista. Si noti che il fondamentalismo – non islamista, in questo caso, ma europeista – è sempre stato profondamente cosciente di come la percezione di una minaccia esterna quale il terrorismo rappresenti un utile pretesto per avanzare la causa eurofederalista. Sia sufficiente dare anche solo un’occhiata superficiale a questo paper del 2003, pubblicato dal Delors Institute (ora presieduto da Enrico Letta) e finanziato dalla Commissione europea, i cui capitoli I e II hanno per titolo “Framing terrorism as a common and current threat to EU member states” e “Terrorism as a political window of opportunity within the EU”.
Nel terzo e nel quarto caso, ci si stupisce solo se si è creduto davvero alla narrazione di una sovrarappresentata minoranza euro-liberista italiana che l’Unione europea fosse una creatura del liberalismo economico (è, sì, uno strumento di svalutazione interna al riparo del processo elettorale, ma mi auguro nessuno identifichi simili politiche classiste con il liberalismo economico, se non i suoi detrattori), o anche solo motore di quella che lo storico Joel Mokyr, nel capolavoro “Una cultura della crescita”, definisce “crescita Smithiana” – crescita quale gioco a somma positiva, che necessita di una cornice legale, politica ed istituzionale per commercio e divisione del lavoro, sia nazionale che internazionale, e per il funzionamento dei vantaggi comparati. Si può a ragione sostenere che il Mercato Comune abbia parzialmente svolto questa funzione nel secolo scorso, ma di certo non è questa la funzione che l’Unione europea identifica per sé nel nostro tempo: come hanno icasticamente dimostrato durante le trattative per la Brexit l’ostinazione dei negoziatori europei nel negare al Regno Unito accordi di riconoscimento reciproco degli standard (che sono la prassi nelle relazioni internazionali tra Paesi avanzati), e la pretesa di clausole di presunta condizione paritaria, non-regressione e persino allineamento dinamico sulle normative future, le istituzioni europee sono ora intese quali armi geopolitiche in un mondo irrimediabilmente a somma zero.
“Il Parlamento europeo non accetterà mai che il Regno Unito possa godere dei vantaggi del libero scambio senza uniformarsi ai nostri standard ecologici, sanitari e sociali. Non siamo stupidi! Non uccideremo le nostre aziende, la nostra economia, il mercato unico. Non accetteremo mai una Singapore sul Mare del Nord!”
Così ha tuonato su Twitter il turboeuropeista “liberale” Guy Verhofstadt, apparentemente convinto che esista un diritto europeo a sabotare le economie dei Paesi coi quali si commercia, e che sia economicamente benefico adottare misure protezionistiche qualora essi si oppongano. “La nostra priorità è proteggere il mercato unico e ribadire il potere politico del continente europeo”, ha dichiarato altrettanto apertamente il ministro delle finanze francese Le Maire nel 2019 alla presentazione del suo libro, dal titolo piuttosto eloquente, “Il Nuovo Impero: l’Europa nel ventunesimo secolo”. “Impero pacifico”, assicura lui, necessario per resistere ai “tentativi di vassalizzazione” di Cina e Stati Uniti. E non solo questo autorevole esponente dell’europeismo francese tratta Cina e Stati Uniti alla stessa stregua, ma include, per giunta, tra i presunti strumenti di vassalizzazione che lo atterriscono, “veicoli a guida autonoma con sistemi di navigazione americani e batterie asiatiche”. Analoghi timori sono stati espressi in Germania.
Non solo dichiarazioni simili rivelano un viscerale rifiuto dell’idea che la concorrenza internazionale determini benefici reciproci, e sia pertanto la più alta forma di cooperazione; ma, soprattutto, l’enfasi sul “potere politico del continente europeo” è una rivendicazione del potere che l’Ue può esercitare nella sfera economica, il che rende formalmente (che lo fosse nella pratica era già chiaro a chiunque non avesse intenzionalmente voltato lo sguardo per non vedere) l’Ue ostile non solo al libero scambio, ma allo stesso libero mercato.
Per avere una vaga idea degli istinti da cui la classe euro-fondamentalista è mossa, è necessario “un peu d’histoire”, come direbbero le Guide Michelin, una breve digressione storica. Senza storia, ci si potrebbe raccontare che ogni fallacia economica convenientemente ideata sia “Scienza”, verità rivelata avulsa da qualunque contesto; che in Ue si applichi codesta scienza neutralmente per rimuovere rigidità strutturali, perché l’Ue avrebbe come obiettivo il perseguimento dell’efficienza economica; e, infine, che quando un europeista si allontana dalla “retta” via della razionalità economica, lo faccia per inseguire Salvini o il Movimento 5 Stelle, e stuzzicare quegli zozzoni incompetenti degli elettori. Storielle. La storia, invece, è quel che ci consente di comprendere come l’Ue sia un progetto (geo-) politico particolarmente disinibito nell’ignorare la razionalità economica (ma anche democrazia, legittimità politica, sicurezza del blocco atlantico, concordia internazionale…; ne riparleremo in altra sede) pur di perpetuarsi.
La dottrina europeista muove da una fallacia che accomuna, tra gli altri, Karl Marx e Mario Draghi: l’economicismo, l’idea che la legittimità di uno stato nazionale dipenda non dalla sua omogeneità culturale, dai valori condivisi, dalla reciproca lealtà dei suoi cittadini, ma dalla capacità di riuscire ad interferire nella sfera economica, quello che potremmo definire il suo “potere”. Osservava il Banchiere-Eroe nel 2019:
“La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini. […] La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo: in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.”
La premessa è che globalizzazione (qui intesa quale internazionalizzazione dell’attività economica) e mobilità dei fattori di produzione abbiano ridotto l’importanza dello stato nazionale quale entità economica. Il che è certamente vero, e qualunque liberista sarà lieto che globalizzazione e tecnologia abbiano ridotto l’efficacia dell’apparato regolatore, industriale e tecnocratico dello stato, senza tuttavia lederne la legittimità giuridica: non a caso, la Svizzera ancora custodisce gelosamente la propria sovranità, e nessuno ritiene che la Cina farebbe un favore ad Hong Kong e Taiwan annettendoseli.
Gli europeisti, ecco chi non è affatto d’accordo. Bisogna cedere sovranità nazionale ad un superstato europeo, l’”Impero pacifico” di Le Maire, di modo da ritrovarsi con maggior potere di interferire nel sistema capitalistico globale, costringere le aziende di tutto il mondo ad adeguarsi ad AML/KYC/GDPR/MIFID I e II etc., e frustrare nazioni sovrane quali Stati Uniti, Brasile o Israele, finché, umiliate, accetteranno di sedersi al proverbiale tavolo e recepire le direttive di Bruxelles sul fracking in Pennsylvania, l’Amazzonia o gli insediamenti in Cisgiordania. In precedenza abbiamo riso dei commenti di Verhofstadt sui rapporti commerciali anglo-europei, ma si rifletta un attimo su ciò che l’interscambio globale implica per la sua visione: l’orrore di un unico governo mondiale, di modo valgano le stesse norme in tutto il mondo, o un altro incubo, un mondo di blocchi autarchici reciprocamente ostili.
Non bisogna stupirsene, perché, storicamente, l’infatuazione per l’economicismo tra accademici, burocrati e politici (particolarmente tedeschi: si legga il superlativo “A German Identity 1770-1990”, di Harold James) è già stata la principale minaccia alla pace e alla libertà delle nazioni europee nei due secoli scorsi. Nella Germania guglielmina, lo stato burocratico per eccellenza, l’economicismo era già associato al mercantilismo (culminato nel settembre 1914 nel famigerato memorandum segreto di Bethmann Hollweg, che elencava gli obiettivi di guerra raccogliendo l’idea tanto cara all’industria tedesca di ogni tempo di una “Mitteleuropa” sotto egemonia politica ed economica tedesca), in una filosofia di stato apertamente illiberale ed anglofobica che traeva ispirazione da Friedrich List in termini di filosofia economica, e Friedrich Hegel in termini di filosofia politica. List, l’anti-Adam Smith per eccellenza, scrivendo nel 1844 aveva teorizzato la necessità di un’unione doganale europea, a guida ovviamente tedesca, per meglio contrastare la concorrenza commerciale britannica, prima, ed americana in un futuro remoto. Hegel, filosofo di stato per il Re Federico Guglielmo III, aveva concepito la nozione di “stato cosmostorico” (lo stato dominante in una particolare epoca, col diritto assoluto di farsi carico dello sviluppo dello Spirito del Mondo, e dinanzi al quale tutti gli altri stati erano privi di diritti) avendo la Prussia come ovvio riferimento, e ritenendole la Gran Bretagna in particolare inferiore: le sue libertà erano puramente formali, non reali -fraseologia molto simile a quella adoperata a Bologna dal Banchiere-Eroe dal prussiano elmo chiodato. Ma se uno stato è uno stato superiore, uno “stato cosmostorico”, non è esso destinato a trionfare sugli stati zozzoni? Non è, anzi, suo dovere estendere il proprio dominio sui popoli di quegli stati zozzoni? Non ha il dovere di diventare un Impero? Per Hegel e per i regimi totalitari, la risposta è ovvia. Abbiamo notato in questi paragrafi come tenda ad esserlo sempre più apertamente anche per i sacerdoti della religione europeista.