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Perché no alla Legge Zan: strumento sbagliato e minaccia alla libertà d’espressione

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Pubblichiamo un intervento di Giulio Centemero, deputato, capogruppo in Commissione Finanze e tesoriere della Lega

La necessità di legiferare, la tutela della libertà di espressione insieme alla tutela delle categorie di minoranza e più fragili. Questi i temi critici sollevati, ma non risolti, dal progetto di legge Zan, già approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati e ora in attesa di calendarizzazione al Senato.

Molto si è detto in questo dibattito sulla necessità e l’opportunità del legiferare e molto c’è da dire sull’argomento, a partire dai fondamenti del diritto romano. Cercando di rimanere in un territorio di buon senso, credo di poter condividere che troppo spesso ormai chiediamo l’intervento del legislatore per regolare materie ed evidenze che fanno invece parte di un’azione di educazione e responsabilizzazione sociale della collettività, sempre in capo allo Stato ma non attraverso lo strumento normativo. L’evoluzione normativa non si traduce automaticamente in un cambio culturale, che è invece quello necessario quando consideriamo questi temi di ordine sociale. Non credo, infatti, che banalmente il soggetto prima di compiere un reato decida in base alla pena o alla categoria tutelata.

Allo stesso modo, discriminazione e condotte d’odio vanno certamente scoraggiate e punite ma per queste finalità esistono norme di diritto penale già applicate indifferentemente da chi li compie e aldilà di chi ne sia colpito, scoraggiando e deprecando queste azioni. A mio giudizio, infatti, non si può pensare di risolvere quella che teoricamente dovrebbe essere un’emergenza sociale – dico questo perché i dati del rapporto Oscad citato nella relazione introduttiva del provvedimento non sembrano facilmente interpretabili in questa direzione – con il codice penale e ancor meno con le aggravanti di tipo penale rispetto ad alcune categorie da tutelare.

Sono invece d’accordo che siano necessarie e implementabili iniziative di ordine sociale e culturale, in più contesti, che in linea con quanto proposto dalla direttiva europea citata dalla proposta di legge Zan, possano sensibilizzare ed educare alla diversità, al rispetto dell’altro chiunque esso sia, in un mondo caratterizzato ontologicamente dalla diversità. Non si tratta di continuare a individuare categorie e sottoinsiemi da tutelare normativamente ma di educare la società e i suoi individui ai principi della Costituzione italiana e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

In una sentenza del 1993 la stessa Corte costituzionale afferma che al fine di eliminare “discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali” si rende necessaria l’adozione di “interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare” le differenze sociali esistenti (sentenza n. 109 del 1993). Quindi, interventi di natura positiva e non repressiva, per risolvere questioni sociali e culturali. Come attuarli? Il vero rompicapo del legislatore. Non è forse esaustivo istituire un nuovo osservatorio e una nuova giornata dedicata, ma occorre un intervento programmatico e strutturato che richiederebbe forse uno studio delle misure attuate con successo negli altri Paesi, e un’attenzione ed uno studio pari a quelli riservati ai provvedimenti economici e finanziari per la crescita.

Ulteriore tema infuocato sollevato dal provvedimento è quello del confine tra reato di opinione e libertà d’espressione, su cui possiamo dire, con buona pace di tutti, che nella prima versione del progetto di legge la norma aveva una formulazione che prevedeva in effetti una sorta di reato di opinione, inaccettabile per il nostro ordinamento, attraverso l’ampliamento dei poteri della legge Mancino, con “l’aggravante d’odio anche per motivi di disabilità, per discriminazioni di genere e orientamento sessuale”. Solo dopo, successivamente al parere della Commissione Affari costituzionali, all’articolo 3 della legge approvata alla Camera è stata introdotta una clausola di salvaguardia dell’art. 21 della Costituzione, che a mio avviso però non è ancora esaustiva ed è aperta a dubbie interpretazioni.

Le modifiche penali prevedevano infatti la punibilità delle condotte di istigazione in una materia in cui non vi è uniformità di visioni e quindi – anche qui – difficilmente legiferabili, essendo presenti invece una pluralità di opinioni e diverse sensibilità. In poche parole, secondo quella formulazione sarebbero potute diventare istigazioni alla discriminazione le manifestazioni di pensiero in difesa della famiglia eterosessuale o dissenzienti dal pensiero Lgbt. La conclusione è stata una recezione parziale della formulazione avanzata dalla Commissione, che sostanzialmente non elimina il rischio ma demanda all’interprete il compito di stabilire, caso per caso, il confine tra una condotta legittima di espressione del pensiero e ciò che potrebbe essere definito come punibile penalmente perché di carattere discriminatorio. A mio giudizio aspetto che rimane comunque ambiguo.

Concordo quindi, come sostenuto nel dibattito parlamentare su questa legge, che il livello di democrazia di un Paese si riconosca dalla capacità di tutela delle diversità, ma sottolineo che la scelta dello strumento, il come, è un elemento essenziale per mantenere un sistema democratico. E avanzo l’ipotesi, non troppo innovativa, che alcuni provvedimenti non siano altro che degli stendardi di battaglie politico-ideologiche, per la ricerca di consenso elettorale, senza davvero voler affrontare il problema nella sua complessità. Da qui, il reale rischio di generare un’ipertrofia legislativa che non tiene conto delle norme già esistenti, ne formula di nuove con relativi aspetti di criticità e lacune, nella fattispecie pericolose, senza risolvere concretamente i fenomeni di discriminazione con iniziative di educazione, a fondamento dei sostanziali cambiamenti culturali e sociali di un Paese.

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