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Perché non possiamo (ancora) permetterci l’Italexit: idee per una politica estera sovranista

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La recente Brexit ha risvegliato i sogni di quanti in Italia vorrebbero emulare gli amici britannici e portare il nostro Paese fuori dall’Unione europea. Venerdì e sabato su Twitter l’hashtag #ItalExit è entrato tra i dieci trend più in voga della giornata e le immagini della festa a base di fiumi di birra e Union Jack sventolate in Parliament Square a Londra non hanno fatto altro che soffiare sul vento del sovranismo nostrano.

L’elefantiaco carrozzone di Bruxelles inizia a suscitare più di una perplessità anche nel nostro Paese. I diktat dei commissari europei sulla nostra legge di bilancio – accompagnati peraltro da una totale mancanza di solidarietà nei nostri confronti quando si tratta di proteggere il confine meridionale del Continente dagli sbarchi dei clandestini – suggeriscono un ripensamento della nostra presenza nell’Ue, e, allo stesso tempo, una riflessione più approfondita sul tema.

In questo momento l’ItalExit non è all’ordine del giorno. L’Italia è un Paese diverso dalla Gran Bretagna anche in rapporto al processo di integrazione europeo e sarebbe incauto proporre in questo momento una soluzione simile per il nostro Paese. Il riconoscimento delle diverse condizioni (debito pubblico e appartenenza all’Eurozona) e sensibilità nazionali è alla base del pragmatismo nazional-conservatore che, pertanto, suggerisce di trattare l’Italia diversamente da come si tratterebbe la Gran Bretagna. Innanzitutto, la Costituzione italiana non prevede la possibilità di sottoporre a referendum i trattati internazionali. Si potrebbe procedere in tal senso con una riforma costituzionale ma è bene constatare che, allo stato delle cose, non esiste in Parlamento una maggioranza favorevole all’uscita dell’Italia dall’Unione europea. Come dovrebbe dunque comportarsi un futuro governo di centrodestra a trazione eurocritica?

Innanzitutto, non è credibile pensare che di fronte al fuoco di sbarramento dell’europeismo nazionale, un governo nazional-conservatore voglia – una volta entrato nelle sue funzioni – combattere una battaglia campale sulla nostra permanenza nell’Unione. Vi sono però dei temi e delle modalità di azione che possono comunque rendere la presenza italiana a Bruxelles più efficace di quanto non sia attualmente.

Un futuro governo di centrodestra avrebbe il dovere di creare un’ampia coalizione – partitica e non solo – a livello europeo per riformare i Trattati, partendo, naturalmente, da quello di Maastricht e dai vincoli che impediscono all’Italia di avere una politica economica e fiscale autonoma.

Un futuro governo di centrodestra dovrebbe assumere un’iniziativa – che per forza di cose non può più essere del Regno Unito – per spingere l’Ue a completare il Mercato Unico.

Un futuro governo di centrodestra dovrebbe pretendere che il principio di sussidiarietà – inscritto nel Trattato di Lisbona – sia davvero praticato dall’Unione, e che il legislatore europeo smetta di travalicarlo attraverso atti che, de facto, avocano a sé sempre più materie e sempre più competenze.

Attraverso queste prese di posizioni politiche si possono raggiungere risultati che andrebbero a incidere sull’architettura dell’Unione. L’importante è che l’Italia giochi queste partite all’attacco senza subire le iniziative dell’asse franco-tedesco, o, peggio ancora, si adegui ai desiderata franco-germanici.

Ma la politica eurocritica – ed eurocostruttiva! – del nostro Paese non deve farci dimenticare il resto del mondo. L’Italia ha sempre avuto un ruolo strategico di primo piano nell’Alleanza Atlantica, anche per via della sua posizione geografica, e deve tornare a contare ed elaborare strategie in questo senso. Gli ultimi governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi hanno spostato l’asse della nostra politica verso un atlantismo sempre più accentuato cambiando anche il nostro ruolo in Medio Oriente. Dagli anni di Berlusconi in poi l’Italia ha rimarcato sempre più la sua vicinanza agli Stati Uniti e a Israele. Le ultime dichiarazioni di Matteo Salvini in tal senso sono state nel solco di questa svolta, con il leader della Lega che si è schierato accanto a Trump e Netanyahu in occasione della crisi con l’Iran.

Anche con la Cina l’Italia deve mantenere un rapporto stretto sul piano economico e commerciale ma senza in nessun modo identificare in quel Paese un modello politico per l’Occidente. Le recenti politiche repressive messe in atto a Hong Kong, e l’atteggiamento minaccioso e aggressivo nei confronti di Taiwan, dimostrano come la Cina non possa essere considerata un Paese con cui poter condividere un idem sentire democratico e liberale. La nostra vocazione alla mediazione, il successo delle operazioni di peacekeeping a guida italiana (vedi, per esempio, la missione Unifil in Libano) e alcuni legami storico-culturali con alcuni Paesi – come la Russia – che faticano a entrare in sintonia con altre potenze ben più conclamate, invitano il nostro Paese a riemergere e a prendere nuovamente un ruolo di rilievo nel mondo. Siamo una potenza di media grandezza che richiede una politica estera di media grandezza e all’altezza della situazione. L’attuale governo sembra più preoccupato di restare incollato alle poltrone mentre compie roboanti proclami su fantomatiche “agende” del futuro. Con il pragmatismo tipico dei conservatori, e con l’interesse nazionale come faro della sua attività, il futuro governo di centrodestra potrà restituire centralità a un Paese che non merita di essere tagliato fuori dalle principali direttrici della politica internazionale contemporanea.

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