Perché non siamo guariti: nel libro del ministro Speranza la pandemia come opportunità per un’agenda politico-ideologica

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Precisiamolo subito prendendo in prestito il concetto da René Magritte: questa non è una recensione. Parlerò di un libro che in Italia non esiste, di un refolo di vento, di un oggetto inabissatosi precipitosamente tra i flutti della storia, e la storia si sa, come insegnavano Hegel e Marx, si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa.

E però parlerò anche di un ministro, Roberto Speranza, che invece c’è, esiste, improvvisatosi scrittore, e che avendo resistito per inspiegabili e insondabili ragioni al cambiamento di governo continua, imperterrito, lui e tutta la compagnia di tecnici accampati in seno al CTS, a tenerci chiusi in casa, costringendo lavoratori autonomi, studenti, commercianti, ristoratori, albergatori, proprietari di palestre e tantissime altre categorie produttive al fallimento, alla fame e alla depressione.

Un autentico caso editoriale questo “Perché guariremo – dai giorni più duri a una nuova idea di salute” (Feltrinelli, 2020): fatto ritirare dal commercio in maniera frettolosa, perché, provò a giustificarsi il novello Elmore Leonard del Lungotevere Ripa, non avrebbe avuto sufficiente tempo per promuoverne l’uscita. Classicissimo caso di toppa peggiore del buco.

E però, nonostante gli strali contro libero mercato e globalizzazione, nonostante il suo dottorato in storia e la laurea in scienze politiche e una intera esistenza spesa nei gangli della politica, senza alcun lavoro esterno al perimetro della politica stessa, Speranza dimostra di averla capita proprio poco la globalizzazione: proprio grazie ad essa e alle piattaforme digitali infatti, nonostante il tentativo maldestro di nascondere i cocci rotti a danno fatto, mi sono potuto metaforicamente accomodare in poltrona, dopo aver ordinato il libro attraverso Amazon Spagna, attendere comodo sorseggiando succo di pomodoro che Jeff Bezos mi suonasse a casa e infliggermi questo autentico atto di autolesionismo (a proposito, è notizia di questi giorni l’allarme per gli aumenti significativi di casi di depressione, tentati suicidi e autolesionismo tra i giovani a causa delle restrizioni anti-pandemiche) quale leggere il libro del ministro.

Avevo iniziato quasi per gioco postandone su Twitter delle pillole con qualche mio commento. Ma procedendo mi sono reso conto che non era un gioco, non più e non solo. E proseguendo capiremo perché.

Come tutte le persone poco avvezze alla scrittura, e come quasi tutti i politici e i personaggi pubblici che ritengano di avere qualcosa di importante da comunicare ai posteri, Speranza inanella la sua prima tragica gaffe già nel mediocre incipit: “Non ci sono dubbi. Guariremo”.

Così, lapidario, stentoreo, una asserzione granitica e fintamente rassicurante: naturalmente tanto ferocemente contraddetta dalla realtà dei fatti da far venire il sospetto che la precipitosa ritirata dagli scaffali sia stata dovuta allo sbugiardamento clamoroso.

Come tutti i comunisti o i post-comunisti (che è la stessa identica cosa, però suona più stiloso e avant-pop metterci quel suffisso ‘post’, fa David Foster Wallace a lezione da Marx), anche Speranza confida nel valore salvifico della memoria: ci confida talmente tanto, nella memoria altrui, che a quanto pare non ha conservato lui stesso memoria di tutti gli errori inanellati nel corso del primo anno di pandemia e lockdown.

Oppure, e ciò in effetti sarebbe ancora più comunista, per memoria si intende una sovrastruttura artificiale, e orwelliana, costruita ad hoc grazie a una narrazione compiacente di influencer, mass media, virologi esibizionisti e in cui immagino il libretto fosse inserito.

Però su una cosa possiamo concordare: il libro, letto oggi, suona come un esercizio di memoria, che mette in fila e ci ricorda le tremende responsabilità dei vari personaggi narrati e decantati come fidati e quasi eroici servitori dello Stato, dai componenti del CTS a Domenico Arcuri, senza mai dimenticare il ‘titanico’ Giuseppe Conte.

Diciamo subito una cosa chiara: Roberto Speranza non sembra avere un grande futuro da fine analista o da aruspicino. Perché a pagina 13, dopo la asserzione perentoria della prima pagina, ci ritorna sopra e ribadisce “il potere di questo maledetto virus ha i mesi contati”. E infatti…

Certo, non aveva specificato quanti fossero davvero quei mesi, un po’ come Gratteri che sembra giustificarsi per la ormai notoria prefazione al libro sul Covid dicendo di averne letto solo un abstract. Evidentemente Speranza aveva solo l’abstract della pandemia per poter tirare giù il suo capolavoro.

A occhio, se come diceva Gabriel Garcia Marquez un vero scrittore si riconosce da quello che butta dentro il cestino della spazzatura, direi che il cestino di casa Speranza è vuoto in maniera desolata; perché me lo immagino, e sono ben sicuro che se lo sia scritto da solo, senza collaboratore-ghost writer, in quelle che lui stesso definisce e descrive come notti insonni piagato e piegato da lavoro e responsabilità, piazzarsi davanti al file word bianco dicendosi ‘coraggio, è tempo di cimentarsi’, come se fosse stato colpito dal lampo della ispirazione proprio dritto in fronte.

Speranza somiglia nello stile a uno di quegli scrittori improvvisati che dicono di non leggere nulla e nessuno per non farsi contaminare lo stile narrativo, uno di quelli del ‘lascio tutto senza correggere per non inquinare l’ispirazione iniziale’, ovvero uno dei milioni di italiani che si tengono nel cassetto quel che loro ritengono il nuovo “I Fratelli Karamazov” ingiustamente ostracizzato da un sistema editoriale che non riconosce il vero talento quando se lo ritrova davanti.

E invece il ministro un editore se lo è trovato. Forse, azzardo, non un editor: perché, vivaddio, ci sarebbe stato un drastico bisogno di ramazzare quella scrittura, correggerla, raddrizzarla, in maniera feroce e implacabile.

Lo stile vuotamente e goffamente retorico, d’altronde, tradisce la impostazione di chi al massimo può aver scritto una circolare scambiandola per “Il giovane Holden”.

A pagina 19, d’altronde, leggiamo “l’auto procede nel relativo traffico”. Relativo traffico, una frase sgraziata e priva di qualunque poesia come solo il linguaggio burocratico potrebbe essere, nemmeno gli straordinari sforzi mimetici di Wallace o di DeLillo riproducendosi all’infinito sarebbero potuti venire a capo di quella cacofonia burocratica, così povera e sciatta.

Chiaramente la prima parte del volume è un esercizio retorico auto-incensatorio e politico-declamatorio, con i primi cento giorni del Governo Conte, l’emozione per il nuovo ruolo di ministro della salute e poi giù nel gorgo nero di quello che sarà l’autentico leit-motiv di tutto il libro: Stato buono, mercato cattivo.

Ogni politico ritiene di dover inserire nel suo sudato parto letterario, oltre ai pensierini ideologizzanti, un qualche minimalismo esistenziale e qualche apprezzamento biografico, ma nessun politico è Raymond Carver. E, leggendo, si sente.

Con una chiarissima visione pedagogica, tipicamente collettivistica, che vede nel cittadino non un individuo capace di autodeterminazione ma solo un atomo/ingranaggio nella macchina del potere collettivo, Speranza ci dice che nessuno si salva da solo.

Forse questo spiega anche le imbarazzanti pagine 28 e 29, dove il ministro ci narra del suo incontro romano col suo omologo cinese, avvenuto a Roma, il 7 novembre 2019, quando in Cina il coronavirus già infuriava. Ed è incredibile dover leggere ‘se la situazione fosse stata grave pare incredibile che un ministro della salute avrebbe potuto passare una serata romana così serena”.  Non solo si fida dei cinesi in maniera così grottescamente naif, ma subito dopo tesse l’elogio del Dragone descrivendolo come un grande protagonista del nostro tempo.

Non può quindi stupire quanto viene subito dopo.

“La sanità come campo dove si combattono le disuguaglianze” di pagina 35 è infatti la professione di fede che rimarca la scelta tutta ideologica di come affrontare e riformare sia il sistema istituzionale della tutela della salute sia del contrasto alla pandemia: d’altronde, accidenti, mercato sporco e cattivo, certo, ma ci fosse una parola su come la politica e lo Stato hanno ben pasteggiato con le loro rendite di posizione, le loro attribuzioni castali, la generale enfasi corporativa (che stiamo ancora oggi sperimentando in tema vaccinale) quando si parla di sistema sanitario.

Per Speranza, come per tutti i progressisti, il mondo è intessuto di manicheismi e di dicotomie: non ci sono aree intermedie, né esistono distinte sfumature cromatiche (a parte quelle stabilite dal CTS per imprigionarci meglio), ci sono solo nero e bianco. Il virus, in questa chiave, è ‘visto da lontano’. Nessuno lo ha visto arrivare. A parte il solo Speranza, si intende.

A pagina 37, anzi, il ministro ci tiene a far sapere che analizzare la complessità internazionale fa parte della sua formazione, ed immagino questo voglia essere l’equivalente letterario del mettersi ‘Ph.D.’ nella bio di Twitter: il problema, esattamente come quello di chi si fregia di quella dicitura per farci sapere che ha un dottorato, è che avere un dottorato se poi non si esercita consapevolmente, quotidianamente, con serietà e abnegazione, la scienza per cui ci siamo addottorati vuol dire poco o niente. Niente, nel caso di specie narrato nel libro.

Perché Speranza dice, ribadisce, e scrive ancora riga dopo riga che mentre tutti si accapigliavano sulla Brexit lui si era reso conto del dramma che ci sarebbe piombato addosso. Non lo metto in dubbio, ma allora deve esserselo tenuto per sé, senza condividere la analisi o la previsione, perché ancora mi ricordo il presidente Giuseppe Conte assicurare in ogni modo che le probabilità di diffusione del contagio in Italia praticamente erano nulle.

Dato che i politici con responsabilità istituzionali amano in maniera quasi feticistica organizzare e assemblare organismi burocratici di cui porsi al centro, si passa subito dopo alla enucleazione delle varie task force composte ‘dalle migliori menti d’Italia’.

A fine gennaio 2020, Speranza capisce che non ci sono più maggioranza e opposizione e che bisogna unire gli italiani, in uno slancio di insopportabile retorica: il tutto senza aver avvertito Conte, immagino, visto che le rassicuranti dichiarazioni dell’allora premier sarebbero andate avanti ancora per tutto febbraio.

Ed eccoci quindi alla presa di coscienza del deflagrare della pandemia. Coi due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani, Speranza percependo l’epocale snodo narrativo rappresentato dai due gli dedica un capitoletto apposito, che si chiude con un abbraccio casalingo narrato con una enfasi da primissimo Moccia. Io e te, tre metri sopra il coronavirus.

Nella drammatica notte di Codogno, quando l’Italia ormai capisce di essere sul ciglio del baratro e qualcuno nel frattempo deve aver avvertito pure Conte, veniamo a sapere che nel flusso straziante di decisioni da dover prendere ‘la Roma vince uno a zero’ (p. 66). Ed è qui che inizia il carnevale triste delle ‘decisioni durissime’. Il carosello delle zone rosse (quelle effettive e le altre, molte, non adottate e su cui ora indaga la magistratura).

Da pagina 70 invece ci troviamo calati nell’altra cifra distintiva del libro: la pandemia come opportunità. Si inizia a tratteggiare e a delineare la nuova normalità, con una citazione da Papa Francesco, il pontefice più amato dai comunisti di tutto il mondo. Speranza nella crisi pandemica vede l’occasione per un rilancio sociale, economico e culturale del Paese, e poi molte pagine oltre, in chiusura del volume, ci dirà anche della sinistra in generale. In fondo, va detto, su questo è stato coerente: nell’ultimo anno abbiamo vissuto la discutibile gioia di vivere blindati in una replica strutturale della DDR.

A pagina 87 scopriamo che l’Italia sta diventando il Paese del Covid e che il nostro brand internazionale ne esce danneggiato: certo, perché parlare di virus cinese era razzista, e così ci siamo trovati cuciti addosso la lettera rossa dell’ignominia internazionale. Gli involtini primavera ingurgitati da starlette dalla discutibile penna ci si sono ritorti contro, a quanto pare.

Devo dirlo, a proposito di soubrette: nel libro c’è una vasta deriva pop/trash, perché a pagina 102 compaiono Barbara D’Urso e Mara Venier come nuove vestali del contrasto alla pandemia. Speranza si dice entusiasta del loro appoggio pedagogico: le ha non a caso arruolate nel progetto di mobilitazione totale contro il coronavirus, tanto da scrivere che l’obiettivo è conquistare l’opinione pubblica nazionale, al fine di produrre un mantra di una nazione intera. Una sorta de ‘la nazionalizzazione delle masse’ in tempi di pandemia.

D’altronde come lavarsi le mani, mantenere le distanze, portare la mascherina, e via dicendo, sarebbero divenuti più che il mantra la litania da danza macabra di una nazione sull’orlo di una complessiva crisi di nervi.

La verve pop-intimistica comunque scorre potente nel giovane ministro: perché qualche pagina prima abbiamo uno spaccato informativo in cui compare la famigerata chat Whatsapp di scuola. I genitori dei compagni di classe dei figli del ministro hanno elevato a indicatore di sicurezza pandemica la presenza, o meno, dei figli del ministro in classe. Li avrei assunti nei servizi di intelligence, oggettivamente, stante l’acume dimostrato.

A pagina 111, Speranza, ripresosi dalla sterzata esistenziale, torna ministro razionale e soprattutto coerente e ci dice che non si può certo militarizzare tutta l’Italia. No, infatti…

Chiaramente, per difendere Casalino e gli orrori comunicativi a cui abbiamo assistito da spettatori e vittime nell’ultimo anno, si minimizza in maniera lampante la fuga collettiva di studenti meridionali dal settentrione verso le loro città di origine, dettata da una fuga di notizie e dalla diffusione delle bozze dei provvedimenti governativi. Non casualmente, a pagina 115, si parla di eccessiva enfasi e di sovradimensionamento di quell’episodio, contraddicendo però in maniera clamorosa quanto scritto solo poche righe prima, ovvero la gravità di quell’esodo.

Ed è qui che passa uno degli snodi narrativi più agghiaccianti e che plasticamente ci rimanda il senso complessivo di una visione ‘ideologica’ del contrasto alla pandemia: chiamato a spiegare le motivazioni sottese alla decisione finale di adottare il lockdown di marzo e aprile 2020, i cui segni le nostre menti, economia, società portano ancora ben in evidenza sulla carne, Speranza scrive “non si può lasciar pensare agli italiani che ci siano regioni ‘dove si sta meglio’, e dove incidentalmente sono i loro cari”. In una riga viene svelato il manifesto programmatico di una decisione del tutto politica, la quale va a parare, more solito, nel concetto tipicamente progressista di eguaglianza e di equità: non innalzare chi sta più in basso, ma abbassare chi sta più in alto.

Anche gli aperitivi e gli abbraccia un cinese alla fine, pur narrati, sono solo funzionali a esprimere per contrasto la serietà del ministro, rimasto in solitudine a riflettere sul mostro pandemico incombente.

Le pagine 117 e seguenti sono invece un’altra difesa, quella dei mezzi normativi scelti per governare la pandemia. La preoccupazione del ministro, a parte i risultati della Roma, sembra essere la tenuta della democrazia. Accidenti… I Dpcm erano legittimati da un decreto-legge, scrive, dimenticando che quel decreto-legge era del tutto vuoto, cieco, muto, inerte, una delega in bianco che demandava tutto al Dpcm stesso. “Credo che non abbiamo mai superato il limite”, e se lo crede lui chi sono io per contraddirlo?

Chiaramente poi si torna alla dicotomia mercato/brutto, Stato/bellissimissimo: il mercato è, letterale, ‘impazzito’. Le regole del neoliberismo sono alla radice di ogni male, il mercato non si riesce ad autoregolare in alcun modo, e via dicendo. Certo, sarebbe da far notare al ministro che parlare di liberismo in Italia è un po’ come ragionare di proprietà privata nell’URSS del 1935, e che molto spesso il mercato è annientato e distorto da pessimi interventi regolatori o da logiche politiche clientelari, ma forse sarebbe troppo per un ministro che ha nominato un suo collaboratore “consigliere etico”.

Forse conciliato nel profondo dei sentimenti da questa vigorosa reprimenda anti-capitalista, l’io narrante si lancia nel raccontarci un momento fortemente intimistico, protagonisti Domenico Arcuri e lo stesso ministro. Addirittura, con eco dickensiana, Speranza al povero Mimmo lascia la sua stanza per fargli avere almeno un ufficio, in quella che immaginiamo come una autentica notte di tregenda tra lampi e tuoni, mentre è pure costretto a separarsi da due fidati collaboratori, descritti come eccezionali.

È la “prigionia di Via Vitorchiano”, dove ha sede il centro polifunzionale della Protezione Civile e dove Speranza ha traslocato in via temporanea lasciando la sede di Lungotevere Ripa. Certo, suscita qualche sinistra ironia sentir parlare di stakanovismo e di prigionia solo perché si fanno le ore piccole mentre gli italiani languono nella reclusione domiciliare del lockdown totale.

Suscita maggiori perplessità pure la santificazione di Arcuri descritto mentre “esercita con risolutezza tutti i poteri che la legge gli ha attribuito”. In effetti lo abbiamo visto bene, tra banchi a rotelle, bandi per le terapie intensive con geologico ritardo, pasticci e derive giudiziarie per le mascherine, padiglioni a primula e piano vaccinale fantasy, fino alla dipartita per defenestrazione decisa dall’irriconoscente Draghi.

A pagina 136 troviamo un altro dei motivi che hanno consigliato, temo, il ministro alla precipitosa ritirata e al tentare di occultare il libro: “L’Italia, il Paese disarmato, ha piegato la curva del contagio con le sue scelte coraggiose”. Verrebbe quasi da ridere se di mezzo non ci fossero migliaia di morti, gente ormai ridotta alla fame e un Paese sull’orlo del precipizio della crisi economica e sociale.

Ma è nell’epilogo che si consuma la ratio essenziale della emergente “nuova normalità” tanto cara ai progressisti di ogni ordine e grado: “il ritorno della sinistra”.

Questa parte devo dire meriterebbe quasi la integrale trascrizione, ma può essere riassunta più o meno così: ‘bieca strumentalizzazione per fini politici di una crisi pandemica’.

Arrivati a questo punto, so solo una cosa: il silenzio grottesco e avvilente di mass media e politica a fronte di queste pagine sconcertanti non rende un bel quadro del nostro Paese. Ad oggi ne hanno parlato o accennato solo pochi giornali, Il Tempo, Linkiesta, La Verità, Il Giornale, e vari utenti Twitter che come fosse una Samizdat ne postano e si scambiano frammenti del testo.

Mentre prende sempre più corpo l’indagine della Procura di Bergamo su ciò che è stato fatto e soprattutto su ciò che all’epoca non fu fatto, mentre altri rivoli di inchieste e indagini travolgono il sistema di approvvigionamento delle mascherine, mentre emerge in tutta la sua drammatica fallacia il precedente piano vaccinale, sarebbe cosa buona e giusta che questo testo divenisse oggetto di pubblico dibattito e la politica, per una volta, si assumesse le proprie responsabilità chiedendo il conto di quanto messo nero su bianco. C’è materiale per ampie interrogazioni parlamentari, per chi se ne voglia fare carico.

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