Si ha un bel dire che l’America è in crisi, molti ne parlano e da parecchio tempo. Si tratta però di vedere se è una crisi definitiva, tale da oscurare per sempre il suo ruolo nel mondo, oppure se stiamo solo assistendo a una temporanea eclissi causata, più che altro, dall’incertezza delle passate amministrazioni democratiche.
Chi vide in diretta il discorso in cui Barack Obama rese noto di aver autorizzato l’intervento dell’aviazione Usa in Iraq, rimase certamente colpito dal grande nervosismo dell’ex presidente. L’espressione era cupa, il viso tirato, e solo la ben nota abilità oratoria gli consentì di pronunciare un discorso passabile.
Fu definito il presidente “riluttante”, e qualcuno usò addirittura un aggettivo molto più forte: “recalcitrante”. Vi erano in effetti ottime ragioni per ricorrere a simili espressioni. Evidente, infatti, che Obama si decise a ordinare l’attacco quando non era proprio più possibile rinviare. Tirato per i capelli, insomma.
Cercò pure di attribuire all’operazione, in fondo limitata, un carattere prevalentemente umanitario, mentre era chiaro che gli interessi in gioco erano soprattutto politici e strategici. Si trattava di bloccare l’avanzata dell’Isis e di aiutare i curdi che si rivelarono più deboli del previsto.
Salvare i non sunniti, che non erano soltanto i cristiani locali, era un obiettivo altrettanto importante; ma non pare lecito pensare che, da solo, avrebbe spinto l’ex presidente a utilizzare la forza militare, sia pure in maniera limitata come dicevo poc’anzi.
Perché, dunque, la tesi di un’America in crisi definitiva lascia perplessi? Per il semplice motivo che, piaccia o meno, gli Stati Uniti sono tuttora l’unica potenza davvero globale, l’unica in grado di effettuare in tempi rapidi un intervento bellico a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio nazionale. Checché se ne dica, la Cina non possiede ancora una simile capacità.
Gli Stati Uniti conservano inoltre una superiorità tecnologica che è persino aumentata negli ultimi tempi, tale da scoraggiare ogni velleità di un confronto militare diretto inteso nel senso classico del termine. Per questo un eventuale attacco di Pechino a Taiwan appare un’ipotesi di fantapolitica. Guerriglia e terrorismo sono casi a parte, ed è proprio qui che gli avversari hanno sempre atteso gli americani al varco in questi ultimi decenni.
Senza alcun dubbio l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 ha modificato in profondità l’atteggiamento dell’opinione pubblica statunitense nei confronti del cosiddetto “ordine mondiale”. E i fallimenti nello stesso Iraq, in Afghanistan, Libia etc. hanno fatto sì che le tendenze isolazioniste siano nel Paese molto cresciute.
Donald Trump altro non ha fatto che sfruttare le pulsioni profonde dell’opinione pubblica Usa, escludendo sin dall’inizio grandi interventi all’estero e dichiarando la propria ostilità alla filosofia delle “guerre democratiche”, praticata non solo dai Democratici ma anche da presidenti dell’establishment repubblicano come i due Bush.
Eppure, il ruolo internazionale dell’America non può essere trascurato, nemmeno da un presidente recalcitrante o scettico in materia come Trump. È la forza stessa degli avvenimenti a imporre l’agenda, e pazienza se chi siede al momento alla Casa Bianca è poco convinto. Nessun altro ha le risorse necessarie per intervenire nel caso di sconvolgimenti che potrebbero rivelarsi epocali, come quelli attualmente in corso in Medio Oriente e nel Mar Cinese Meridionale.
Vorrei però sottolineare un altro fatto. Si parla spesso della grande quantità di soft power che l’America possiede a differenza delle altre potenze più o meno emergenti. Parlo dell’enorme influenza culturale che gli Usa continuano a dispiegare in ogni parte del globo, dove per “cultura” s’intende qualcosa di più vasto dell’accezione classica del termine.
In questo senso sono cultura tanto i grandi motori di ricerca come Google, i social network più popolari quali Facebook e Twitter, e i fast food con McDonald’s in testa. Chi ha occasione di visitare spesso la Repubblica Popolare Cinese o il Vietnam si rende conto di quanto i giovani cinesi e vietnamiti siano affascinati dalla American way of life. Il Partito Comunista, negli ultimi tempi, ha cercato di contrastare tale tendenza ma, sembra, con scarso successo.
Il discorso vale pure per la musica pop e rock (con le varie appendici dei nostri giorni). Si va nella Repubblica Popolare Cinese o in Vietnam, e si vedono tutti i giovani che adottano simboli e gesti tipicamente americani. E persino nel mondo islamico la tendenza è in atto, a dispetto dei divieti imposti dai governi.
Un po’ diversa la prospettiva dei grandi giornali e soprattutto degli atenei di eccellenza, gettonatissimi dai giovani cinesi (inclusi i rampolli della nomenklatura comunista). Lì politically correct e cancel culture stanno facendo danni così gravi da indurre a credere che l’iscrizione degli studenti cinesi – e stranieri in genere – diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. Ed è un dramma, poiché la permanenza all’estero dei giovani cinesi era un ottimo antidoto alla politica repressiva del regime.
Attenderei comunque un po’ prima di parlare di “fine del secolo americano”, espressione ormai entrata nell’uso corrente. A differenza della grande maggioranza degli osservatori, chi scrive non è affatto convinto che la politica estera di Donald Trump sia stata un grande flop. Al contrario l’ultimo presidente repubblicano è stato l’unico a contrastare in modo deciso ed efficace l’espansionismo cinese, cogliendo inoltre successi significativi anche in altri teatri, per esempio il Medio Oriente. Non si è ancora capito bene come si muoverà Joe Biden. Finora ha mostrato di voler soddisfare tutti i desideri della coalizione “arcobaleno” che l’ha portato al potere. Ma ha indubbiamente ragione chi prevede che Kamala Harris, grazie anche all’età avanzata del presidente, è destinata a svolgere un ruolo sempre più rilevante. Circa le sue opinioni in materia di politica estera, tuttavia, sappiamo ben poco, e questo non può che destare inquietudine in tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’Occidente.