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Perché si può parlare di imperialismo cinese: Pechino minaccia i suoi vicini (per ora) ma l’Europa è distratta

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Si può parlare, oggi, di un imperialismo cinese analogo a quelli degli ultimi secoli? Rammento che con tale termine si denota una tendenza di politica mondiale – tipica delle grandi potenze – a estendere la propria egemonia politica, economica e culturale in aree sempre più vaste del nostro pianeta. Nel corso della storia umana tale tendenza è praticata da nazioni che hanno raggiunto alti livelli di sviluppo tecnologico e industriale, consentendo così di prevalere anche dal punto di vista militare.

Quando si nomina, per l’appunto, l’imperialismo cinese, ci si imbatte nell’obiezione – che viene soprattutto da sinistra – che la Repubblica Popolare è uno Stato socialista tuttora basato sull’ideologia marxista-leninista. Ne consegue, secondo molti, che non si può in questo caso parlare di “imperialismo” poiché la Cina è impegnata nella promozione di un ordine mondiale più armonioso (tipico concetto confuciano), all’interno del quale tutti i popoli possano sviluppare le loro legittime aspirazioni alla libertà e alla giustizia.

E mette conto notare che la medesima obiezione veniva in passato rivolta a coloro che parlavano di imperialismo sovietico. Pure in quel caso i difensori dell’Unione Sovietica replicavano che la sua politica estera mirava a promuovere una rivoluzione mondiale in grado di sovvertire i rapporti di forza, permettendo ai deboli di affrancarsi dal dominio dei forti.

Eppure l’espressione “imperialismo cinese” non è affatto un ossimoro, e merita quindi un’analisi approfondita. In realtà, già ai tempi di Mao Zedong si poteva notare la volontà di Pechino di recuperare la gloria di un impero che aveva dominato gran parte dell’Asia per un lunghissimo periodo di tempo. Con Deng Xiaoping tale volontà divenne ancora più evidente, e i suoi successori – pur con fasi alterne – hanno continuato a praticarla. Soprattutto grazie alla percezione, non del tutto giustificata – che l’influenza globale degli Stati Uniti stava progressivamente scemando.

Le prove sono evidenti per qualsiasi osservatore spassionato. In Africa e in America Latina (ma anche in Europa) i cinesi stanno acquisendo posizioni predominanti sul piano economico e finanziario, al punto che alcuni Stati sono ormai considerati vassalli di Pechino. Non possiedono per ora la capacità americana di intervenire militarmente in scacchieri lontani per appoggiare gli amici e punire i nemici, ma è noto che si stanno attrezzando per conseguire anche tale obiettivo.

Ancora più evidenti sono le prove nell’ambito asiatico. La Repubblica Popolare considera lo strategico Mar Cinese Meridionale come una sorta di “lago interno”. Facendo proprie le mappe geografiche elaborate nel 1947 da funzionari del Kuomintang, il movimento nazionalista sconfitto da Mao nel 1949 e poi rifugiatosi a Taiwan, Pechino sta procedendo in modo accelerato alla costruzione di isole artificiali nel suddetto mare trasformandole in basi militari.

A riprova dell’acquisito status di grande potenza, la Cina può permettersi di ignorare le veementi proteste delle numerose nazioni che si affacciano su quelle coste. Dal Vietnam (che con Pechino ha un contenzioso storico di grande portata) alla Malesia, dalle Filippine alla stessa Taiwan dove presero dimora gli sconfitti seguaci di Chiang Kai-shek. Pure le proteste degli Stati Uniti, ai quali le suddette nazioni si rivolgono per aiuto, non hanno sinora sortito effetti concreti.

Dunque, parlare di imperialismo cinese si può e si deve, e chi non lo fa si dimostra incapace di analizzare la situazione emersa da alcuni decenni a questa parte. Come si diceva poc’anzi, apparentemente manca alla Cina un elemento essenziale per essere considerata una potenza imperialista a tutti gli effetti. Vale a dire la capacità di dispiegare le proprie forze armate in qualsiasi scacchiere del globo, al pari degli Stati Uniti o di Regno Unito e Francia all’apice del loro potere coloniale. Ma senza dubbio è già in grado di farlo nel contesto asiatico.

E senza trascurare un altro fatto assai importante. Gli americani hanno ammesso di avere enormi problemi nelle loro attività di intelligence rivolte alla Repubblica Popolare che, come già accadeva ai tempi di Mao, è in larga parte impermeabile alle spie. Ciò significa, in buona sostanza, che della reale potenza della Cina sappiamo tutto sommato poco, e dobbiamo spesso accontentarci di illazioni.

Sono ben lontani i tempi in cui la Repubblica Popolare si atteggiava a protettrice dei Paesi più piccoli (soprattutto comunisti). Ora è chiaro che ha acquistato piena coscienza della sua forza non solo economica e finanziaria, ma anche militare. Chi pensava che la tensione con Tokyo a causa del piccolo arcipelago delle Senkaku/Diaoyu fosse un episodio isolato ha poi dovuto costatare che quello era solo il primo atto di una serie destinata a durare nel tempo.

Pure il Vietnam, che la Cina molto aiutò ai tempi della guerra con gli Usa, denuncia gravi episodi di sopraffazione nelle isole Paracel, contese tra i due Paesi. Annesse all’Indocina francese in epoca coloniale (1932), anche questo arcipelago è oggetto di conflitto. E mette conto rammentare che scontri al riguardo ci sono già stati. Nel 1974, infatti, la Cina occupò manu militari la parte occidentale delle Paracel, costruendovi installazioni e un aeroporto che potrebbe essere utilizzato dalla sua aviazione per effettuare incursioni in molte nazioni contigue come le Filippine.

Dal canto loro i vietnamiti sono animati da un acceso spirito nazionale accresciuto dalla vittoria nel conflitto con gli Usa nel secolo scorso. Non hanno mostrato paura e timori reverenziali, al punto che, nel corso di manifestazioni popolari, decine di fabbriche cinesi sono state attaccate e si è avuto un alto numero di morti e feriti (inclusi parecchi taiwanesi scambiati per cittadini della RPC).

Cresce l’allarme pure nelle Filippine dopo la notizia che i militari di Pechino stanno costruendo un aeroporto in un altro arcipelago conteso, quello delle Spartly. Il presidente filippino ha commentato che si tratta della “politica delle cannoniere”, ed è difficile dargli torto.

Nel frattempo si è spesso sfiorato lo scontro aereo alle Senkaku tra cinesi e giapponesi i quali, proprio come i vietnamiti, non sembrano intenzionati a lasciare campo libero ai potenti vicini.

Al di là dei singoli episodi, tuttavia, è chiaro che la Cina sta mettendo in pratica una strategia da grande potenza i cui esiti sono imprevedibili. Anche a causa dell’incertezza della politica estera degli Stati Uniti ai tempi di Obama. A tale proposito qualcuno ha addirittura azzardato un paragone con la celebre “dottrina Monroe”, il presidente Usa che nel 1823 enunciò il principio “l’America agli americani” per impedire interventi delle potenze coloniali europee sulla sponda opposta dell’Atlantico. Si noti che in quel modo tanto l’America del Nord quanto quella meridionale vennero in pratica considerate quale zona d’influenza diretta degli Stati Uniti.

Se il paragone è corretto, Xi Jinping e la leadership cinese si stanno attualmente comportando nello stesso modo in Estremo Oriente. L’Asia agli asiatici, dunque? Troppo semplice. L’espressione rammenta da vicino la “sfera di prosperità comune della grande Asia orientale”, l’ambizioso progetto mediante cui il Giappone imperiale voleva attirare nella propria orbita le altre nazioni di quell’area del mondo. In realtà lo slogan serviva solo a coprire le ambizioni nipponiche di egemonia assoluta. Senza scordare che, al tempo, gran parte delle summenzionate nazioni erano ancora colonie di potenze europee quali Inghilterra, Francia e Olanda.

In realtà la Cina non sembra interessata a progetti di quel tipo. Incurante delle proteste degli Stati contigui, procede senza soste a proclamare – utilizzando le forze armate – la sua sovranità su territori (soprattutto arcipelaghi) da sempre contesi. Senza punto curarsi di interpellare l’Onu e altri organismi internazionali e, forse, contando sulla neutralità dei russi che, pur avendo grandi interessi in Estremo Oriente, cercano un’analoga neutralità cinese in Ucraina e altrove.

Permane l’impressione che in Occidente, e in particolare in Europa, non venga percepita in modo adeguato la grande pericolosità della situazione venutasi a creare nel Pacifico. Eppure si tratta di uno scacchiere importante anche dal punto di vista europeo, se non altro per motivi economici.

Il premier nipponico Shinzo Abe sta tentando di costruire un’alleanza con le nazioni direttamente minacciate dall’espansionismo di Pechino, e non sono poche. Oltre a quelle menzionate in precedenza, rammentiamo Corea del Sud, Malaysia e Thailandia. Alleanza però difficile visti gli storici contrasti che le dividono. Qualcuno riuscirà a fermare la Cina? È una domanda cui al momento è difficile rispondere, anche in considerazione dell’ambiguità politica di molti Paesi occidentali, Italia inclusa.

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