Lo scorso 13 novembre, 23 Stati dell’Unione Europea hanno deciso di portare a compimento il progetto di Cooperazione Strutturata Permanente, ovvero la PESCO, la nuova struttura di cooperazione tra Stati dell’UE nel settore della difesa e della sicurezza. L’11 dicembre, il Consiglio ha adottato, con una procedura di cooperazione rafforzata, l’istituzione della PESCO, con l’aggiunta di altri 2 Stati europei (Irlanda e Portogallo). La cooperazione rafforzata permette a un minimo di 9 Stati di portare avanti progetti e strutture cooperative all’interno del quadro europeo, senza quindi dover coinvolgere tutti i 28, a breve 27, membri dell’Unione. E’ però giuridicamente vincolante, quindi i membri che vi prenderanno parte dovranno seguire gli obblighi annessi. L’Italia, in questo contesto, è stata tra i primi membri a prendere parte al processo di cooperazione, coinvolta in 4 dei 17 progetti che dovrebbero prendere vita entro fine 2018.
Ma questo nuovo progetto europeo è ciò di cui abbiamo bisogno? Sin dall’inizio, la PESCO è risultata essere un progetto quasi esclusivamente con marchio franco-tedesco. La Francia ha infatti già messo in campo progetti legati e connessi ai tedeschi, come quello annunciato il 13 luglio 2017 riguardante un nuovo jet di quinta generazione. Inoltre, i transalpini potranno contare sul fatto che, con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, saranno l’unico Stato avente deterrente nucleare, questione non da poco nelle dinamiche interne europee. Altro fattore da riconsiderare è il Fondo europeo di difesa (EDF), che dovrebbe contare all’incirca 5,5 miliardi di euro. Vista l’elevata partecipazione alla PESCO e la competitività dei Paesi dell’Europa centrale e orientale nel settore della difesa, l’Italia rischia di raccogliere briciole.
La domanda principale è però un’altra: dove si colloca la PESCO nello scenario internazionale, e più specificatamente, nel quadro atlantico? Partendo dal presupposto che il progetto attuale non è nemmeno l’embrione di una vera e propria difesa europea, ma bensì una cooperazione dal punto di vista tecnico e industriale tra i settori delle difese europee, sono sorti molti dubbi sulla natura della PESCO. La Cooperazione Strutturata Permanente è stata costruita con l’aiuto della NATO, attraverso la strategia globale di difesa approvata dal Consiglio europeo il 28 giugno 2016 e attraverso l’accordo tra NATO e Unione europea firmato l’8 luglio 2016 al Vertice di Varsavia. L’operatività del Patto Atlantico e l’operatività europea venivano quindi ben distinte. Con la PESCO, inoltre, si puntava alla riorganizzazione delle economie europee per un rinnovato impulso ai settori della difesa, anche in vista dell’obiettivo NATO del 2 per cento di spesa rispetto al PIL.
Ma le perplessità sono rimaste. Non a caso, durante l’ultima Conferenza di Monaco sulla sicurezza, sia rappresentanti degli Stati Uniti che il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, hanno espresso alcuni dubbi circa la bontà della PESCO. Il messaggio è chiaro: la Cooperazione Strutturata è cosa buona e giusta, ma solo se complementare al Patto Atlantico. La PESCO non può e non deve rappresentare un’alternativa alla NATO. Sia la natura stessa del progetto, sia l’incapacità attuale dell’Europa di dotarsi di una vera difesa unitaria, in grado di rappresentare una seria struttura difensiva, dovrebbero già bastare per evitare l’incomprensione. Basti pensare alle ristrette e ancora astratte capacità d’intervento della PESCO, che sarebbero focalizzate in aree come l’Africa sub-sahariana (con tutti i dubbi del caso), dove la NATO ha deciso di non intervenire, ma sopratutto tramite missioni difficilmente paragonabili a delle vere e proprie operazioni belliche.
La domanda sorge spontanea: piuttosto che impegnarsi così tanto nella PESCO, che dimostra ad oggi già tanti limiti, non sarebbe più utile e auspicabile un impegno maggiore al rilancio del progetto atlantista, con lo sforzo degli Stati europei di raggiungere la quota del 2 per cento di spesa nella difesa, e prendere quindi veramente parte all’Alleanza Atlantica, ritagliandosi un proprio ruolo, una propria autonomia, che anche gli stessi Stati Uniti, principale attore dell’Alleanza, chiedono ai membri europei?
Il nostro Paese ha quindi la possibilità, anzi l’obbligo, di rappresentare sì una “testa di serie” nel settore della difesa europea, grazie alle grandi capacità industriali e le competenze tecniche che l’Italia può mettere in campo, ma soprattutto farsi portavoce di un rilancio dell’Alleanza Atlantica nel quadro europeo. E’ essenziale che la politica, e quindi il prossimo governo, trovi le forze necessarie per far fronte agli impegni presi. Solo 14 dei 29 membri NATO ha raggiunto o è in procinto di raggiungere il vincolo del 2 per cento entro il 2024, e l’Italia non figura tra questi. Ancora non è stato presentato un piano per far fronte alla spesa, e non sarà facile farlo in un Paese dove la difesa e la spesa militare rappresentano (stoltamente) un tasto dolente nell’opinione pubblica nostrana, ma è necessario che l’Italia ritorni prepotentemente sui tavoli internazionali e portare avanti le proprie istanze, dimenticando il “sogno” utopico e ingenuo portato avanti da alcuni settori della politica e dell’informazione, che speravano nella bontà dei nostri compagni europei nel portare avanti una politica comune. A Parigi e Berlino, certamente, non ragionano in questo modo.