Thomas Piketty è un uomo fortunato: a 46 anni dirige una delle più importanti istituzioni di alta formazione e ricerca di Francia ed il suo libro “Capitalism in the Twenty-First Century” è uno dei saggi economici dell’ultimo decennio più venduti e letti al mondo. Inoltre, è uomo di garbo, bella presenza e con cui è piacevole parlare come ho avuto modo di constatare di persona ad una tre giorni OCSE nel maggio 2014. Non è, però, necessariamente una persona felice.
Non tanto perché le sue settecento pagine hanno “sfondato” grazie alla mirabile traduzione in inglese; in Francia il loro mercato era la gauche caviar (la sinistra che si dà appuntamento alla Brasserie Lipp e, prima del porcele au lait, gusta aperitivi a base di champagne e caviale). Neanche perché alcuni fanatici dei numeri si sono accorti di errori nelle statistiche su cui basa la sua tesi di una politica redistributiva a livello mondiale. Ma perché, in fondo al cuore, sa che, prima di lui, Marx, Malthus e Ricardo avevano sostenuto che il capitalismo sarebbe imploso a ragione di crescenti disuguaglianze ed erano stati smentiti non solo dai fatti, ma soprattutto da errori concettuali di sistema.
Circa un anno dopo la pubblicazione del suo best seller, nel saggio “John Maynard Keynes” (Feltrinelli, 2015), Giorgio La Malfa ha correttamente rivendicato che il merito di Keynes non è stato quello di come e quando stimolare la domanda aggregata (in caso di esigenza) ma quello d’avere compreso il duplice errore di sistema di Marx, Malthus, Ricardo e degli altri economisti “classici”: avere proiettato all’infinito tendenze di breve e medio periodo e non avere tenuto conto del ruolo dell’intervento pubblico e del progresso tecnologico nel correggerle. Sono gli stessi errori di Thomas Piketty – e che 50 anni fa aveva commesso il Club di Roma nel profetizzare che entro l’inizio del secolo in corso il mondo sarebbe imploso per mancanza di energia e a ragione della crescita demografica (e conseguenti bocche da sfamare).
In altre sedi sono state discusse alcune “sviste” statistiche di Piketty, a cui l’economista ha risposto in modo non del tutto convincente. Non credo valga la pena soffermarsi su chi ha ragione e chi ha torto in queste sviste. Sono al più analoghe a quelle dei dati di Reinhart e Rogoff in materia di asticella oltre la quale lo stock di debito pubblico frena il Pil: l’argomento di base resta valido anche se l’asticella deve essere posta più in alto od il freno è meno brusco. Il volume “Tutti gli errori di Piketty – Saggi sul capitale nel XXI secolo” (a cura di Geoffrey Woods e Steve Hughes) appena uscito nella collana IBL-Libri (170 pp. 18 euro) presenta un’antologia di 11 saggi (tre in più della edizione originale uscita in inglese nel 2015) che confutano le tesi di fondo, le metodologie e le statistiche di Piketty. In effetti, mostrare errori teorici ed empirici di Piketty è diventata una piccola industria, come dimostra un lavoro di Nadia Garbellini dell’Università di Pavia (“Inequality in the 21st Century – A Critical Analysis of Piketty’s work”, Institute for New Economic Thinking Working Paper Series No. 69). Il volume dell’IBL è, comunque, il modo migliore per affrontare le principali critiche a Piketty. Sono saggi brevi, leggibili ed includono il minimo supporto tecnico. Quasi tutti i saggi (salvo due) riguardano l’impianto concettuale ed il modo in cui Piketty costruisce ed interpreta i dati. Non condannano il lavoro ma ne mostrano i limiti e le difficoltà di applicazioni pratiche alla politica economica senza, al tempo stesso, incidere negativamente su quei processi di crescita che, in ultima istanza, sono la fonte delle risorse per affrontare strategie redistributive o, quanto meno, alleviare le diseguaglianze. E riconoscono a Piketty il merito di avere indirizzato gli economisti verso un’area di ricerca relativamente trascurata negli ultimi decenni (ove non lasciato diventare appannaggio dei sociologi e degli scienziati della politica).
Ricordiamo che il nodo centrale dell’analisi e soprattutto delle conclusioni di Piketty è che il capitalismo imploderà perché i rendimenti della ricchezza saranno sempre superiori al tasso di crescita dell’economia reale, l’equazione r>g (i rendimenti da capitali sono maggiori del tasso di crescita del PIL reale) derivata non da un ragionamento teorico ma da un’analisi empirica di dati per un campione di Paesi dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Gli stessi dati mostrano, però, un aumento delle diseguaglianze negli ultimi vent’anni dopo una loro riduzione secolare grazie in gran misura all’intervento dello Stato (regolazione delle concentrazioni di ricchezza, imposizione tributaria, trasferimenti ai ceti più deboli) ed al progresso tecnologico. Piketty proietta l’aumento nel futuro e prevede che nel 2030-2040 negli Usa, il 10 per cento più abbiente della popolazione avrà il 60 per cento del reddito (grazie al controllo della ricchezza) e il 50 per cento meno favorito solo il 15, rispetto al 50 ed al 20 nel 2010. La situazione sarà, a suo parere, relativamente migliore in Europa, soprattutto in Scandinavia dove c’è una radicata cultura redistributiva.
A mio avviso Piketty non solo non tiene conto della ‘distruzione creatrice’ schumpeteriana come ricordato nell’introduzione ed in vari saggi della raccolta IBL. Il suo ragionamento si basa su un errore al tempo stesso più semplice e più profondo. Al pari di Marx, Malthus e Ricardo non tiene conto né di cambiamenti di approccio, e della mano pubblica e del mercato, né del progresso tecnologico, né della constatazione che in altre parti del mondo (Asia, Africa, America Latina) negli ultimi vent’anni oltre un miliardo e mezzo di persone sono uscite della povertà assoluta e la distribuzione del reddito è migliorata, né di quanto avvenuto proprio negli Stati Uniti ed in Europa nel secolo e mezzo precedente il 1990 o giù di lì.
E’ poco scientifico proiettare all’infinito una tendenza di medio periodo, ipotizzando che la politica economica abbia come unico strumento d’intervento un’imposta patrimoniale mondiale. Quel che è più grave è che Piketty lo sa. E tace in tristezza.