La politica estera, come è stato ampiamente riconosciuto dai principali quotidiani nazionali, è stata la grande assente della recente campagna elettorale. Presi come sono stati dalle questioni interne, divisi tra proposte liberali come la flat tax e il sostegno alle imprese da una parte e proposte più progressiste come il reddito di cittadinanza dall’altra, i partiti hanno fatto passare del tutto inosservate le loro idee a proposito del ruolo che il nostro Paese dovrà svolgere nell’Unione Europea e nel resto del mondo. Un ruolo che negli ultimi anni è andato parecchio rimpicciolendosi per entrambe le situazioni, dato che il peso dell’Italia è pressoché irrilevante a Bruxelles, fatta eccezione per la presidenza del Parlamento europeo affidato ad Antonio Tajani, e quasi inesistente nel resto del mondo. Tanto per fare un esempio, basta considerare come gli ultimi governi hanno gestito la situazione dell’immigrazione dal Nord Africa, completamente isolati e nella piena incapacità di ottenere aiuto a livello internazionale.
Eppure, dalla politica estera un paese non può prescindere. Tutti noi siamo stati studenti e abbiamo dovuto rispondere a domande quali “Cosa fece Tizio in politica estera?”, “Quali alleanze fece Caio per rafforzare il ruolo dell’Italia?”, eccetera. Se nel futuro ponessero agli studenti queste domande sulla politica estera degli ultimi presidenti del Consiglio, questi non saprebbero cosa rispondere, perché una risposta non c’è, se non che non è stato fatto proprio nulla.
L’Italia ha l’onore e l’onere di appartenere tanto all’Unione Europea quanto all’asse atlantico formato da Stati Uniti, Regno Unito e Israele. Queste due realtà, negli ultimi anni, sono entrate sempre più in conflitto tra di loro, per via del peggiorato rapporto tra l’asse franco-tedesco, che ormai la fa da padrone nell’Unione Europea, il Regno Unito (causa Brexit) e gli Stati Uniti (causa Trump). Con Israele la questione è più incerta, nonostante molte uscite del commissario Mogherini e di alti ufficiali della UE sulla questione israelo-palestinese lasciano intendere come Israele non goda più del supporto incondizionato da parte europea.
L’Italia, davanti a questa spaccatura, deve scegliere da che parte stare, senza eliminare l’ipotesi che possa stare da entrambe le parti, ovvero perseguire la strategia del “tenere un piede in due scarpe”, che poi è una molto spesso risultata vincente, quando attuata da politici di un certo spessore. Quello che invece non può permettersi di fare è rimanere inerte. Nell’Unione Europea perché questa sta sempre più per essere terreno di conquista da parte del duo Merkel-Macron, dopo la stipula del Trattato dell’Eliseo, che rafforza l’asse franco-tedesco e nel quale si legge a chiare lettere la volontà dei due paesi di lanciare una OPA sul resto dell’Unione. Nel mondo atlantico perché non può permettersi il lusso di indebolire i contatti con i veri alleati storici, Washington e Londra. Relativamente a quest’ultima, lascia del tutto allibiti l’assenza dell’Esecutivo italiano sulla questione dell’uscita dal Regno Unito dall’Unione Europea. Seppur criticabile, Francia e Germania un approccio su questo tema ce l’hanno, ed è quello di creare il maggior danno possibile agli inglesi nel chiaro tentativo di indebolirli per poter sottrarre alla City i gioielli della finanza internazionale, ovvero le grandi società finanziarie. E’ per questo motivo che hanno messo come capo negoziatore Michael Barnier, un falco specializzato nel dire esattamente quello che il primo ministro inglese Theresa May non vuole sentirsi dire. L’Italia, sul punto, non ha mai espresso una posizione, quando dovrebbe invece sostenere apertamente una partnership con i Tories, anche in considerazione che gli inglesi hanno un forte interesse a mantenere un piede politico e finanziario nell’Unione, se vogliono proseguire a fare business con il blocco. Segnali in tal senso sono arrivati direttamente dalla May, allorché scelse Firenze come città europea per lanciare il suo discorso sull’uscita, e da numerosi esponenti del mondo imprenditoriale e finanziario britannico, che hanno espresso interesse per una partnership con l’Italia che gli consenta di usare Milano come il loro “foot on the bloc”. E’ evidente che in questo scenario il nostro Paese ha solo da guadagnarci, in termini di imprese che verrebbero ad aprire i propri uffici a Milano, con tutto il loro indotto. Sarebbe un modo, tra le altre cose, per rinsaldare proprio quell’asse atlantico che è stato perduto, con Stati Uniti e Israele. Per poter fare questo passo, tuttavia, è necessario avere un governo che sia alleato ma non succube di Bruxelles.