Politica

Da Draghi pretesa dei “pieni poteri” e un discorso sbilanciato a sinistra

Alto rischio “incidente”. Gli italiani “chiedono” attraverso le elezioni, invocare la legittimazione delle piazze è la quintessenza del populismo

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Era fatta, ma ha voluto strafare. Non per far saltare il banco (sebbene tentato di andarsene, si sente davvero investito dagli italiani, per quanto appaia ridicolo), ma per avere pieni poteri. Ma ha esagerato, quindi ora dimissioni vere e consultazioni

Intendiamoci, da una parte la protervia e l’arroganza di Mario Draghi i partiti se la meritano tutta. Per l’incompetenza delle loro classi dirigenti, ma soprattutto per la loro ignavia, la scelta di mantenere una comoda posizione che consente loro da un lato di partecipare al banchetto del potere, dall’altro essendo al riparo dell’ombrello deresponsabilizzante di Sua Competenza, ovvero risparmiandosi l’onere dell’azione di governo.

Al netto della retorica e degli scontatissimi toni duri nei confronti dei partiti (quasi più nei confronti della Lega che dei 5 Stelle), e della solita frase spudorata su cui torneremo, stringi stringi Draghi sembra venuto a dire al Parlamento che le dimissioni della scorsa settimana sono dovute ad un suo momento di sconforto, ma in realtà lui è pronto a proseguire. A proseguire, va da sé, con i “pieni poteri” ricevuti al momento della sua investitura.

Non può sfuggire però al presidente del Consiglio un dato evocato da lui stesso questa mattina: non il semplice rischio, ma la certezza di una “fiducia di facciata“.

I gruppi parlamentari che con ogni probabilità oggi gli rinnoveranno la fiducia non potranno esimersi, in piena campagna elettorale, dal rimarcare sui provvedimenti in esame la loro identità, con distinguo, strappi, tensioni.

Un premier che avesse la consapevolezza della natura politica e non tecnica delle sue scelte, e dunque del suo governo, lo accetterebbe e considererebbe l’opera di mediazione tra le diverse spinte di una maggioranza molto eterogenea parte a tutti gli effetti del suo lavoro. Non una perdita di tempo e un freno all’azione di governo, ma la composizione di istanze legittime in un governo di grande coalizione.

Non è che da domani, come per magia, la maggioranza funzionerà meglio di ieri. Se ne è consapevole anche il premier bene, lo accetti, ma allora certe lezioncine sono del tutto fuori luogo.

Spetta innanzitutto a Draghi uscire dall’equivoco. Invece, il premier sembra talmente avulso dalla democrazia rappresentativa da ritenere che una mobilitazione di qualche giorno di qualche centinaia di persone (militanti di Renzi e Calenda, una ristretta minoranza di sindaci, Confindustria e Competenty, televirologi e, dulcis in fundo, qualche senzatetto) valga di più del voto espresso nel 2018 da milioni italiani che legittimano – forse un qualcosina di più – le forze politiche presenti in Parlamento a portare avanti le loro istanze.

Come ha osservato Luigi Curini in questa intervista ad Atlantico Quotidiano: “La politica e la sua competizione non si possono neutralizzare. Non è possibile nascondere la politica sotto un tappeto, pretendere che non esista e volersi affidare al grand commis di turno”.

Questa, testualmente, la frase spudorata di Draghi: “La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del governo è senza precedenti e impossibile da ignorare” (con un preoccupante filo di rabbia nel pronunciare la parola “ignorare”).

Scioccante la sola idea che Draghi possa esserne davvero convinto, che una personalità della sua levatura possa credere che questa “mobilitazione” esista davvero.

“Gli italiani me lo chiedono”, davvero, non si può sentire da un premier privo persino di qualsiasi esperienza politico-elettorale. La sua unica legittimazione politica gli deriva dalla legittimazione dei partiti che lo sostengono, anche se essi sembrano essersene dimenticati. Quei partiti che con molta più fondatezza potrebbero rispondergli, a sostegno delle loro rivendicazioni, “gli italiani ce lo chiedono”.

Gli italiani “chiedono” attraverso le elezioni. Invocare la legittimazione delle piazze è la quintessenza del populismo, con venature di peronismo.

Un punto colto senza fatica da Giorgia Meloni: “Sono le autocrazie che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini, non le democrazie occidentali. Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva”.

Un buffetto al premier è arrivato durante il dibattito in aula persino da Pierferdinando Casini: “Lei è qui non solo perché glielo hanno chiesto gli italiani, ma perché il Parlamento non le ha mancato la fiducia. Attenzione a invocare gli italiani: vorrebbe dire andare al voto“.

Certo, come anticipato, c’è l’ignavia di queste stesse forze politiche, ma lascia sgomenti quella che una volta (o forse all’indirizzo di altri premier) si sarebbe chiama insensibilità istituzionale. Nella richiesta ai partiti di non disturbare il manovratore, di procedere senza ostacoli, nel suo rifiuto di perdere tempo a mediare tra le diverse istanze, c’è il rigetto della democrazia parlamentare. C’è, in poche parole, la pretesa dei “pieni poteri“.

La ricomposizione pareva cosa fatta, ma non saremmo così sorpresi se quella frase terribile e un discorso molto sbilanciato a sinistra finissero per provocare “l’incidente“.

Il premier ha ricordato a Conte e ai parlamentari del Movimento che si preoccupa più lui di loro della “agenda sociale”, come dimostrerebbero gli incontri con i sindacati, l’apertura sul salario minimo, la conferma del reddito di cittadinanza e i diversi bonus. Mentre a destra, tranne un riferimento alla autonomia differenziata, solo bastonate.

Un discorso, nella sua attenta calibratura volta a recuperare i 5 Stelle e a non concedere nulla alla Lega, che sembra scritto al Nazareno.

Pur avendo provocato la crisi, il Movimento 5 Stelle è considerato una componente da blandire e recuperare, essendo chiaramente un asset del Partito democratico, che si troverebbe in grande difficoltà a restare al governo senza di esso, mentre la Lega un partito da detestare e provocare fino a determinarne, magari, l’uscita. Questa la sensazione che si ricava dalle parole e soprattutto dalle azioni di Draghi.

Se non temessimo di sopravvalutare la strategia parlamentare del premier, potremmo anche ipotizzare che il discorso abbia lo scopo di spaccare entrambi i gruppi, sia i 5 Stelle a sinistra che la Lega a destra, in modo da proseguire solo con i fedelissimi delle due componenti.

Non c’è dubbio che dopo un discorso così a rompere, oggi stesso, dovrebbero essere Lega e Forza Italia, se avessero uno straccio di dignità. Con un discorso così squilibrato nella Prima Repubblica un premier non sarebbe sopravvissuto alla giornata parlamentare di oggi.

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