Il “Patto per l’Italia” dell’11 agosto, conformemente al modello classico, apre con l’elenco che hanno adottato, ma con un distinguo fondamentale fra la coalizione di centrodestra, formata da Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, che l’hanno approvato nelle persone dei rispettivi leader, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni; e la nuova coalizione “Noi moderati” composta da Udc, Coraggio Italia di Luigi Brugnaro, il movimento di Maurizio Lupi e quello di Giovanni Toti, che si sono limitati a firmarlo.
Insomma, sembra che la coalizione di centrodestra, con partiti veri, dotati di un passato consolidato, di un riscontro elettorale sicuro, di un radicamento territoriale, volessero render chiaro che esso e solo esso si considera responsabile in solido della attuazione del programma agli occhi del corpo elettorale, una volta chiamati a formare il governo
Mentre l’altra coalizione sia solo una concessione, quanto pare neppure strettamente necessaria per il risultato, al fine di permettere di avere uno strapuntino in Parlamento a un vecchio e nuovo personale privo di ogni effettivo rilievo politico, come ben testimoniato dalla assoluta genericità della denominazione prescelta di “Noi moderati”, dietro di cui si sono ammucchiati, senza il minimo senso del pudore.
Dio, Patria e famiglia
Come prevedibile il programma, articolato su 15 punti, parte da una ribadita fedeltà alla Alleanza Atlantica e alla Unione europea, per poi affrontare l’intera gamma dei problemi esistenti, con una enfasi particolare sui cavalli da battaglia peculiari delle tre forze: riduzione della tassazione, lotta all’immigrazione clandestina, riforma costituzionale in senso presidenziale.
Ma non è mia intenzione trattarne qui, se non per quel che mi pare costituirne l’anima, cioè la riaffermazione, se pur “secolarizzata”, della formula conservatrice per eccellenza cioè Dio, Patria e famiglia.
È ben difficile farla capire ad una sinistra che, rimasta priva della stella polare rappresentata dalla classe operaia, ha fatto propria la visione di una società senza anima, laicista, multietnica, con protagonista la famiglia arcobaleno. Farle capire che quella formula non è affatto reazionaria, addirittura potenzialmente autoritaria, come proverebbe il fatto di essere stata fatta propria dalla propaganda e prassi del fascismo.
È la formula in cui continua a riconoscersi la larga maggioranza della popolazione autoctona, basti declinarla nella sua essenza profonda, dove Dio è l’ascendenza cristiana, testimoniata dalla croce che campeggia sui campanili e sui sepolcri, la Patria è la terra fra le Alpi e il mare Ionio dove si parla la lingua di Dante, la famiglia è la società naturale eterosessuale in cui si è cresciuti e si sono fatti crescere i propri figli.
La cultura giudaico-cristiana
Non è una questione di fede, anche se essa ha una presa assai più ampia di quella assicuratagli dalla popolazione praticante, per essere stati sensibilizzati da bambini con la somministrazione dei sacramenti, la frequentazione delle parrocchie, la ricorrenza dei giorni di festa, coi loro riti e regali, il paesaggio abituale, ricco di chiese, tabernacoli e icone, sparsi per ogni dove.
Crescendo, lungo il corso degli studi, e viaggiando per la penisola, scoprirà che gran parte della nostra dote artistica è da attribuire all’eredità romana e alla architettura, pitture sacre, riconducibili alla dottrina e alla tradizione cattolica che, a sua volta, è largamente debitrice alla rielaborazione della filosofia greca.
Qui la fede è un di più riguardo alla cultura, di per sé né necessario, né sufficiente, che viene sinteticamente indicata come giudaico-cristiana, la stessa che, se pur ripudiata da una concezione laicista negatrice, resta l’anima profonda di una identità figlia di una storia millenaria.
La sostituzione etnico-culturale
Recuperarla e valorizzarla nella sua versione secolarizzata rappresenta una necessità a fronte della sfida portatavi da una cultura incentrata sulla religione musulmana, teocratica e pervasiva di ogni condotta umana, pubblica e privata, fortemente ritualizzata ed escludente, così da non essere di per sé integrabile, dato che la sua versione ortodossa è e non può essere che fondamentalista, cioè non compromettibile, senza per questo sfociare nella Jihad.
Per rendersene conto bisogna guardare là dove il Corano è legge, se pur in versione più o meno ammorbidita, non, invece, in Europa, dove essendo le componenti islamiche largamente minoritarie coltivano i loro credi e costumi nelle comunità e nelle famiglie, senza aver affatto rinunciato al carattere esclusivo ed escludente della loro fede.
Si può ironizzare fin che si vuole sull’effetto sostituzione, che non è di razze, ma di etnie, di culture che non sono affatto paritarie alla luce della nostra stessa Costituzione, ma del tutto incompatibili, sì che la compensazione della scarsa natalità con una immigrazione non selettiva, all’insegna di una visione neo-colonialista, per cui si tratterebbe di sottrarre al continente africano non aree territoriali ma forze lavoro auspicabilmente già formate, risulta portare ad una conseguenza statisticamente fondata, di una riduzione crescente della popolazione autoctona.
Così, nel programma del centrodestra, la rivendicazione delle radici giudaico-cristiane si salda, da un lato, con una politica a favore della famiglia tradizionale e, dall’altro, con una politica immigratoria che ne contenga la portata a misura della nostra capacità di accoglimento, senza contare su una ridistribuzione automatica nel resto dell’Europa.
Patria e cittadinanza
La parola Patria ricorre nel programma del centrodestra nella forma costituzionalmente più rilevante, quella dell’art. 52 che ne definisce la difesa un sacro dovere del cittadino, per cui gli può anche essere richiesto il sacrificio della vita, sia pure come ultima risorsa, e che suona dalla lettera una chiara contropartita di quella cittadinanza che gli assicura la piena libertà.
E lo Stivale che si prolunga nel Mar Mediterraneo, fonte di una orgogliosa appartenenza per chi vi abita, è di inguaribile nostalgia per chi vi resta lontano, una identificazione territoriale ormai scevra di qualsiasi spinta nazionalistica, non destinata a sciogliersi semplicemente nella appartenenza all’Ue.
Uno si sente e dice cittadino italiano assai più che cittadino comunitario. Volendo ricorrere ad una metafora, il primo è un fatto di pelle, il secondo di abito, tal che è ben comprensibile il timore di un ridimensionamento eccessivo del peso e ruolo del Paese in quel di Bruxelles.
Famiglia naturale e natalità
Grande attenzione è data a quella che si spaccia con alterigia non come famiglia naturale, ai sensi della Costituzione, ma, al meglio, come tradizionale, al peggio, come inguaribilmente patriarcale, reazionaria e perché no fascista.
Essa è divenuta la vittima preferita di una sinistra totalmente radicalizzata, per cui la vocazione riproduttiva della donna viene vista come una sorta di condanna che ne limita la crescita e la carriera. Sì che, invece di favorirla tramite tutta una politica promozionale, dovrebbe addirittura essere disincentivata, giungendo fino ad una mitizzazione di un diritto di aborto che sconfina nella concezione del feto come una malformazione da asportare a semplice richiesta della donna incinta.
Come ho scritto sopra, la questione di una ripresa della natalità è legata alla tenuta della popolazione autoctona, la condizione stessa della sopravvivenza di una cultura altamente civile, che verrebbe travolta da una immigrazione islamica massiccia, senza essere in grado di realizzare alcuna integrazione, lasciando esposto all’incuria se non alla distruzione un enorme patrimonio, di cui la gente che abita la penisola è responsabile di fronte all’intera umanità.