Ce lo aspettavamo. È terribilmente prevedibile la nostra stampa di sinistra e, a ruota, prevedibilissimi i riflessi del Partito democratico.
Quando martedì pomeriggio abbiamo notato i lanci di agenzia che riportavano il leak dell’ennesimo rapporto dell’intellegence Usa sui finanziamenti russi ai partiti e leader occidentali, sapevamo che sarebbe stato subito cavalcato per rilanciare i sospetti sui partiti di centrodestra, in particolare Lega e Fratelli d’Italia.
September Surprise, dunque? Non proprio. Ma un goffo tentativo di costruirne una. Vediamo di ricostruirlo.
La velina dall’amministrazione Biden
Nel rapporto della Intelligence Community Usa (non è specificato quale agenzia), citato da un “top Biden administration official”, il solito funzionario anonimo, si parla di almeno 300 milioni di dollari spesi da Mosca dal 2014 in poi per finanziare partiti di 24 Paesi al fine di influenzarne la politica a proprio vantaggio. Non una cifra esorbitante, tutto sommato, considerando che va divisa per almeno 7 anni, per i 24 Paesi e per decine di soggetti.
Niente di nuovo, si direbbe. Anche perché non vengono citati né i Paesi, né nomi e cognomi dei beneficiari.
Secondo quanto ha spiegato Edward Luttwak all’AdnKronos, in questo rapporto “non c’è una lista di nomi”, ma si tratta di una “stima fatta da un analista sulla base di specifiche informazioni riguardo specifici individui in diversi Paesi per rispondere a una domanda del Congresso”. Un calcolo per quantificare “il livello dello sforzo russo per influenzare la politica occidentale”.
Comunque, osserva Luttwak, i nostri Servizi possono sempre chiedere ai colleghi Usa chi siano gli italiani “che prendono soldi dai russi, ed anche dai cinesi”.
Già, e i cinesi? Curiosamente la nostra stampa non si fa mai domande sui soldi investiti da Pechino per influenzare a proprio vantaggio la politica italiana, pur essendo abbastanza visibile tale influenza.
Il rapporto sarebbe stato commissionato all’inizio di quest’estate (lavoro ultra-rapido…), il suo livello di riservatezza retrocesso da classificato a top secret, riferisce la stessa fonte, in modo che gli alleati e il pubblico potessero ricevere alcune informazioni.
Lunedì il Dipartimento di Stato rendeva noto che il segretario Blinken ha inviato un cablogramma a numerose ambasciate e consolati Usa con i “talking point” del rapporto che i diplomatici dovranno sollevare con i governi che li ospitano in merito alla presunta interferenza russa.
Le ombre del Russiagate
Che il Cremlino investa nella propaganda e nella disinformazione per influenzare gli altri Paesi, come tutti d’altra parte, è una ovvietà nota da decenni. Probabilmente oggi in quantità non paragonabili a quelle della vecchia Urss, che doveva letteralmente tenere in vita partiti comunisti esteri, come ben sappiamo…
Ma attenzione a questi “dossier” sulla Russia, perché nel recente passato l’intelligence Usa ne ha fatto ampio uso di politica interna.
L’oggetto e le conclusioni di questo rapporto somigliano infatti tremendamente a quello commissionato nel 2016 alla National Intelligence guidata allora da James Clapper, lo stesso periodo in cui fu montata la bufala del Russiagate, a colpi di decine di leak spesso falsi o fuorvianti divulgati attraverso la stampa liberal.
E qui apriamo una breve parentesi. Proprio martedì è emerso un altro interessante dettaglio dai documenti depositati in tribunale dal procuratore speciale John Durham, che sta indagando sulle origini del Russiagate. Notizia ovviamente ignorata.
L’FBI ha inserito Igor Danchenko, la fonte principale del falso dossier della Campagna Clinton sui legami Trump-Russia (il famigerato dossier Steele), sul proprio libro paga come “fonte umana riservata”, nonostante avesse indagato sullo stesso Danchenko per presunto spionaggio per conto del governo russo.
Anche dopo aver scoperto che l’identità della fonte primaria del dossier corrispondeva proprio a Danchenko, invece di verificare se avesse veicolato disinformazione russa nel dossier, l’FBI lo ha pagato e “coperto” come fonte dal marzo 2017 all’ottobre 2020 (tutta la durata dell’amministrazione Trump).
Detto altrimenti, il governo russo potrebbe aver usato l’FBI come canale di disinformazione per alimentare un conflitto politico e istituzionale senza precedenti nella storia politica Usa.
Target: Fratelli d’Italia
Ma torniamo al nostro rapporto: la tempistica e le modalità del leak (l’anonimato della fonte e la vaghezza del contenuto), tipiche proprio dei tempi del Russiagate, sono più che sospette.
La notizia esce a meno di due mesi dalle elezioni di midterm e a pochi giorni dalle elezioni italiane, proprio mentre Adolfo Urso, esponente di spicco di Fratelli d’Italia e presidente del Copasir, si trova a Washington, dopo aver visitato pochi giorni prima Kiev, impegnato in una operazione a quanto pare efficace di accreditamento internazionale.
Non sorprende la rapidità con cui la nostra stampa di sinistra e il Pd (Letta già martedì sera) hanno raccolto l’assist, vista la palese mancanza di frecce al loro arco in questa campagna elettorale.
Il tentativo ci è sembrato subito chiaro: una vecchia e stra-nota storia, ma molto vaga, viene rimessa in circolo dall’amministrazione Biden giusto in tempo perché i media di sinistra italiani possano ricamarci sopra e far ripartire la giostra, rimettere i sospetti di finanziamenti russi ai partiti di destra al centro degli ultimi giorni di campagna elettorale. La riuscita di questo tentativo dipenderà anche dalla reazione di Lega e Fratelli d’Italia.
Più che Matteo Salvini – già colpito e quasi affondato con la storia dell’hotel Metropol e per le sue posizioni su Putin e le sanzioni alla Russia – il target stavolta è il partito di Giorgia Meloni, possibile futura premier.
L’intervista a Volker e la quasi-smentita
E infatti la notizia del giorno è l’intervista di Paolo Mastrolilli (la Repubblica) all’ex ambasciatore Usa alla Nato Kurt Volker che, così titolava il giornale, “punta il dito” contro Fratelli d’Italia. Nel pomeriggio di ieri proprio Urso si fa messaggero della “smentita” di Volker:
“Stamattina avevo un incontro con lui [Volker, ndr] e altri… quando ha letto l’articolo [di Mastrolilli su la Repubblica, ndr] è rimasto sorpreso: non è questo quello che lui aveva detto. Mi ha consegnato un biglietto in cui mi autorizza a smentire ufficialmente“.
In realtà, il biglietto non contiene una smentita. Non dice nulla sui contenuti dell’intervista rilasciata a Mastrolilli, scrive semplicemente di essere stato “rassicurato” da Urso sulla lealtà di Fratelli d’Italia alla Nato.
Quindi Volker sospettava che FdI prendesse soldi da Mosca, tanto da dirlo al secondo giornale italiano, ma gli sono bastate due parole di Urso per sentirsi “rassicurato”. Ci rendiamo conto della superficialità del personaggio? Chiaro che siamo nel campo dei wannabe volponi…
Il Pd difende il suo ruolo
Ma l’obiettivo della polpetta avvelenata è chiaramente l’operazione di legittimazione che Fratelli d’Italia sta conducendo a livello internazionale, che si regge proprio sullo sbandierato atlantismo e il sostegno all’Ucraina.
Il Pd e i giornali amici cercano di sabotarla, sperando di farle perdere qualche voto moderato ma soprattutto di far fallire l’accreditamento e precostituire munizioni per il fuoco d’artiglieria post-voto. Non sia mai che un partito di destra si dimostri affidabile agli occhi dei nostri alleati.
Il Pd è molto geloso del suo riconosciuto ruolo di garante dei vincoli esterni dell’Italia, dai quali ha ricevuto e riceve preziose sponde per restare al potere o, all’occasione, per ribaltare i governi sgraditi.
L’accusa di tradimento
Oltre ai sospetti di aver preso soldi da Mosca, ovviamente respinti con forza al mittente da Lega e FdI, l’occasione è stata ghiotta per ritirare fuori posizioni passate e presenti di vicinanza a Putin e alla Russia – che qui riteniamo sciagurate – da parte di Salvini e Meloni.
Ma per quanto siano sconvenienti tali dichiarazioni, un conto è rimproverare agli avversari politici la contrarierà alle sanzioni o la difesa dell’identità cristiana, tutt’altro accusarli di essersi venduti a una potenza straniera ostile, oltrepassando una linea rossa nella normale dialettica politica.
L’accusa evocata infatti è quella di tradimento, di nemici della patria. Prima di formularla occorrerebbe essere in possesso di prove schiaccianti – e non è questo il caso – perché posto in tali termini il confronto politico rischia di sfociare in una guerra civile.
I Democratici Usa non si sono fatti scrupoli nel montare queste accuse nei confronti di Trump, con il risultato di bruciare i ponti, avvelenare i pozzi e gettare la politica e le istituzioni Usa in una lunga crisi che finisce per avvantaggiare proprio i rivali strategici dell’America.
Il Pd vuole percorrere la stessa strada con il partito che probabilmente vincerà le elezioni del 25 settembre?
La dipendenza dal gas russo
Che i leader dell’attuale centrodestra abbiano subito il fascino di Vladimir Putin è senza dubbio vero. Chissà cosa avrebbero combinato se fossero stati al governo. Ma non c’erano.
Al governo c’erano leader del Pd che fascino o non fascino, pagati o non pagati poco importa, hanno promosso affari miliardari tra Italia e Russia facendo impennare la nostra dipendenza dal gas russo. E ciò anche dopo la prima aggressione della Russia all’Ucraina nel 2014.
Fuori discussione che Russia e Cina utilizzino fondazioni, associazioni, etc per influenzare la politica occidentale a proprio favore. Ma attenzione anche agli accordi commerciali…
Non lasciatevi abbagliare dagli specchietti per le allodole. Se volete i nomi di chi ha lavorato per Putin, remunerato o meno poco importa, basta cercarli in chi ci ha resi dipendenti dal suo gas. Il presidente russo ha avuto nelle sue mani capi di governo dei più importanti Paesi Ue – da Schroeder a Merkel, da Berlusconi a Prodi – e i vertici delle nostre società energetiche. Ma ora dovremmo preoccuparci di pescare la paranza?
Mettiamola così: molto più di chi forse – non si sa chi e non è provato – ha preso qualche spicciolo, dovremmo indagare su chi – e già ne conosciamo i nomi – ha dato centinaia di miliardi a Putin e gli ha regalato un potere di ricatto enorme su un intero continente, nel frattempo smantellando le nostre produzioni di energia.
Letta con Putin da Trieste a Sochi
“Prima del 25 settembre gli elettori italiani hanno il diritto di sapere se qualcuno tra i partiti che troveranno sulla scheda elettorale è stato finanziato da Putin”, ha avuto il coraggio di intimare il segretario del Pd Enrico Letta a CartaBianca.
Noi invece ci chiediamo come mai sia stato l’unico capo di governo occidentale presente all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014, ospite del ricevimento offerto da Vladimir Putin, quando il presidente russo già ricattava l’Ucraina e il braccio di ferro con l’Ue era violentissimo.
Il 26 novembre 2013, a Trieste, alla presenza dell’allora premier Letta e del presidente Putin, durante un vertice intergovernativo assai nutrito, furono firmati ben 28 accordi Italia-Russia, con al centro l’energia ovviamente, ma anche finanza e industria.
Accordi con tutte le big italiane: Eni, Enel e Pirelli con Rosneft; Poste italiane con Poste russe; Mediobanca e Sace con Vnesheconombank, Ubi Banca con Transcapital Bank, Cdp con il Russian direct investment Fund, Fincantieri con il centro navale di ricerca Krylov.
Il Business Forum era promosso dal Foro di dialogo italo-russo e organizzato dall’Ispi. Nel comitato di presidenza del Forum: Franco Bassanini. Ed è proprio dal 2014, dagli effetti di quel vertice, che la dipendenza italiana dal gas russo si impenna.
Vero, in quei giorni Putin non aveva ancora invaso l’Ucraina e annesso la Crimea. Ma non è un caso se a Sochi, in quel 7 febbraio 2014, Letta si trovò solo. Appena terminati i giochi invernali Mosca avrebbe aperto le ostilità contro Kiev per prendersi la Crimea e destabilizzare il Donbass.
Ma soprattutto, la durissima crisi tra Russia e Ue-Usa sull’Ucraina era scoppiata da mesi.
Mentre Letta firmava i 28 accordi miliardari, il leader del Cremlino aveva già messo in atto il suo ricatto nei confronti di Kiev, imponendo al presidente ucraino – il filorusso Yanukovich – di non apporre la sua firma all’accordo di associazione con l’Ue, prevista in occasione di un vertice a Vilnius il 28-29 novembre (niente Nato e non adesione all’Ue, solo associazione). Accordo che era poi il punto di equilibrio ideale tra est e ovest immaginato da Kissinger.
Fu l’evento che innescò le proteste di Euromaidan. La situazione a febbraio era talmente tesa, e Mosca vicina all’intervento armato, che tutti i capi di stato e di governo occidentali boicottarono l’inaugurazione delle Olimpiadi di Sochi. Tutti tranne Letta.
Gli accordi dei premier Pd con Putin
Ma attenzione, perché anche dopo il 2014, ad annessione della Crimea avvenuta e sanzioni adottate, altri due premier del Pd hanno fatto accordi miliardari con Vladimir Putin accrescendo ulteriormente la nostra dipendenza dal gas russo.
Nel giugno 2016, al Forum economico di San Pietroburgo, il premier Matteo Renzi (allora del Pd) firmava accordi per 1,3 miliardi (che “spalancano partnership” per 4-5). In quell’occasione Renzi – ricordiamo: a due anni dall’annessione della Crimea e sanzioni Ue in vigore – definiva la Guerra Fredda “fuori dalla realtà”, “Russia ed Europa condividono gli stessi valori”, e chiedeva che il rinnovo delle sanzioni Ue contro Mosca non fosse “automatico”.
Sul fronte dell’energia, aggiungeva, “da qui a 20 anni Russia e Italia avranno tanti settori di cooperazione e quello energetico sarà tra quelli prioritari“. Tra i contratti firmati, quelli tra Eni e Rosneft, tra Leonardo-Finmeccanica, Rosneft e Russian Helicopters, tra Fincantieri e Rosneft, tra Saipem e Novatek, tra Asi e Roskosmos.
Ma non è finita qui, è il turno di Paolo Gentiloni, un altro premier Pd oggi commissario della Von der Leyen. Il 17 maggio 2017 – a tre anni dall’annessione della Crimea e a sanzioni Ue vigenti – firmava a Sochi sei accordi con Putin, ovviamente con oil & gas al centro, di nuovo Eni–Rosneft.
“Tenere conto della Russia è un dovere”, affermava solennemente Gentiloni promettendo di aprire in sede Ue una “discussione seria” sulle sanzioni, che non fossero rinnovate “con il pilota automatico”.
Infine, Mario Draghi. Non del Pd. Ma proprio lui, che in Parlamento ha rimproverato ai governi precedenti di aver accresciuto la dipendenza dal gas russo “non solo negli ultimi 10-15 anni”, ma “incredibile anche dopo l’invasione della Crimea” (governi Prodi, Berlusconi, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte), in realtà non si è posto minimamente il problema fino all’invasione russa del 24 febbraio.
Avrebbe dovuto includere anche se stesso, dal momento che non ci risulta che Sua Competenza abbia messo becco su un Pnrr, approvato appena ieri, che persevera nell’errore.
Chi ha lavorato per Putin
L’amara realtà è che un’intera generazione di leader europei, da Merkel a Letta (ma lista è lunga), ha lavorato con testardaggine per costruire la leva di Putin contro di noi. Non importa se consapevolmente o meno, questo non è un processo alle intenzioni, né se per tornaconto.
Le conseguenze sono state gigantesche, in termini di costi e vite umane. Dal 2016 al 2020 Donald Trump aveva avvertito la Germania di essersi resa dipendente dal gas russo ma ha ricevuto in cambio risatine.
Da qui si deve partire quando si parla di rapporti con la Russia. E chi oggi considera congiunturale, provvisoria, l’uscita dalla dipendenza dal gas russo si inserisce in questo filone.