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Primo banco di prova: l’ingerenza del Colle e il rischio pilota automatico

Il problema non sono i “tecnici”, è il software, le idee. Evitare tutele e veti, la trappola della “soluzione europea”. Salvini meglio al Viminale, occhio alla presidenza delle Camere

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Il punto non è se i ministri debbano essere “tecnici” o politici. È un aspetto a ben vedere secondario. Ovvio, confermare ministri del governo uscente non sarebbe un buon segnale da parte di chi è stato all’opposizione, ma Giorgia Meloni ha già chiarito che non ce ne saranno. Qualche eccezione potrebbe riguardare i ministri della Lega, ma ci arriveremo.

Tecnici o politici, falsa dicotomia

Il problema non è l’eventuale presenza di tecnici nel nuovo governo, ma il software. Avere principi solidi e idee chiare è il prerequisito. Poi occorre che gli uomini e le donne chiamate a dar corso a quelle idee – politici o tecnici – siano leali, coerenti e funzionali ad esse.

Ancor meglio se anche competenti. Non con la “y” – Competenty – ma preparati sì. Ministri politici competenti della materia di cui dovranno occuparsi, eventuali figure “tecniche” non del tutto a digiuno di politica.

Per fare un esempio, non è scontato che un fisico nucleare si riveli la migliore scelta come ministro dell’energia, dato che senza una spiccata sensibilità politica è destinato a farsi spolpare dai suoi colleghi a Bruxelles. E questo vale per ogni ambito del governo.

La destra non deve temere i tecnici a prescindere, ma dotarsi dei suoi tecnici, di una sua classe dirigente. Non deve cullarsi nell’idea populista di un governo del popolo contro le élites, deve mirare a diventare essa stessa élite, a sostituire il suo establishment all’establishment dominante.

In questa ottica l’integrazione tra politica e “tecnica” è senz’altro possibile e, anzi, auspicabile. Ma ciò richiede naturalmente di restare saldi sui principi.

Il primo banco di prova: l’ingerenza del Colle

Sebbene la maggioranza al Senato sia leggermente al di sotto della quota che consideriamo “di sicurezza” (che avevamo indicato in almeno 120 seggi), non dovrebbero esserci ostacoli alla nascita di un governo di centrodestra e la leader di Fratelli d’Italia dovrebbe ricevere l’incarico di presidente del Consiglio.

Come avevamo già segnalato all’indomani del voto, però, il primo banco di prova – in particolare, ovviamente, per Giorgia Meloni – sarà la formazione del governo, la scelta e la nomina dei ministri.

È ragionevole aspettarsi che il Quirinale cercherà di mettere sotto tutela il nascente governo Meloni condizionando le scelte nei Ministeri-chiave: su tutti il nome del ministro dell’economia e delle finanze, ma non solo, come vedremo più avanti.

Lo ha ripetuto lunedì Marzio Breda, intervenendo su La7: “Non bisogna scandalizzarsi se il capo dello Stato su alcuni ministeri eccepisce qualcosa”. Per il quirinalista il potere di nominare i ministri sarebbe “duale”, “in capo a due soggetti”: premier incaricato e, appunto, presidente della Repubblica. Teoria bislacca ma purtroppo i precedenti non mancano.

Se la Meloni e il centrodestra si lasceranno condizionare dal Colle sui nomi dei ministri-chiave, o se faranno le loro scelte con il retro-pensiero di legittimarsi, rassicurare i centri di potere interni ed esterni al Paese, si ritroveranno commissariati ancor prima di partire, come è accaduto al governo giallo-verde e alla Lega nel governo Draghi.

La prima sfida sarà non farsi “normalizzare”, né dare questa impressione, perché oggi, come sappiamo, con l’estrema volatilità del consenso basta poco per precipitare nei sondaggi e ritrovarsi anatra zoppa.

La premier in-pectore dovrà quindi essere pronta, se necessario, anche ad ingaggiare un braccio di ferro con il Quirinale. E gli alleati dovranno evitare di prestare il fianco ai prevedibili tentativi di metterli l’uno contro l’altro sui nomi dei ministri.

La situazione è ben diversa da quella in cui si trovarono Matteo Salvini e Luigi Di Maio nel 2018. Ci stava che i due – che non godevano di una maggioranza parlamentare indicata dagli elettori e non avevano saputo indicare nemmeno un premier – subissero l’influenza e persino le imposizioni di Mattarella. A prescindere dai loro limiti, erano in una posizione obiettivamente di debolezza.

Ma il 25 settembre 2022 è andata molto diversamente. Dalle urne è uscita una maggioranza politica netta, espressione di una volontà chiara dell’elettorato. Mattarella dovrà fare attenzione a non esporsi troppo e gli alleati non potranno sfilarsi subito. L’investitura è troppo evidente, sarebbe stupido, suicida da parte loro.

Questa è la forza che Meloni ha e che deve esercitare senza indugio. Impensabile relegarla all’opposizione. Se si dimostrerà determinata, saranno gli altri a piegarsi. E anche il presidente della Repubblica dovrà ritrarsi di buon ordine.

Questo perché nessuno oggi può pensare di presentarsi davanti agli italiani e spiegare loro che no, non nascerà un governo Meloni. La leader di Fratelli d’Italia ha il coltello dalla parte del manico e deve usarlo, finché ce l’ha.

Vale per la scelta dei ministri come per i primi provvedimenti da adottare: sono le prime settimane a segnare la legislatura e Meloni deve iniziare subito a far valere il capitale politico ottenuto dal voto. Se non lo farà, lo dilapiderà in fretta e sprecherà un’occasione irripetibile.

Il nodo Salvini-Viminale

Due criteri generali collegati tra di loro. Primo, come ha già osservato più volte Daniele Capezzone, Giorgia Meloni farebbe bene ad essere generosa con gli alleati negli organigrammi. E, secondo, i leader dovrebbero essere coinvolti nella squadra di governo.

Proviamo ora a scendere più nel concreto. Sono due le caselle più delicate per la partenza del governo. La prima è, ovviamente, quella del Ministero dell’economia e delle finanze, l’altra è il Viminale.

Qui a nostro avviso è interesse della Meloni non avere un approccio punitivo o diffidente nei confronti di Matteo Salvini. Primo, perché il leader della Lega ha il controllo della stragrande maggioranza delle truppe parlamentari leghiste. Dunque, meglio tenerselo stretto, e instaurare un dialogo diretto con lui in Cdm, piuttosto che averlo distante e rancoroso. Tra l’altro, dare spazio agli avversari interni di Salvini non aiuterebbe la stabilità del governo. Anzi.

Secondo, perché negare a Salvini il Viminale, non essendoci sostanziali divergenze programmatiche con la Lega in materia di sicurezza e immigrazione, manderebbe il segnale sbagliato. Vorrebbe dire piegarsi ai veti dell’opposizione, del mainstream di sinistra e di Bruxelles, che vorrebbero un Salvini umiliato e marginalizzato. Sarebbe un errore.

Tireranno in ballo i processi a suo carico, per presunti reati nello svolgimento delle sue funzioni di ministro dell’interno, per sostenere la inopportunità di rimandarlo al Viminale. Ma al contrario, Salvini dovrebbe tornare al Viminale proprio perché qualcuno ha voluto mandarlo sotto processo per aver difeso i confini nazionali. E dare questo segnale, non lasciarsi intimidire, è nell’interesse anche di Fratelli d’Italia.

La presidenza delle Camere

Altre due caselle vanno riempite con la massima accuratezza: le presidenze di Camera e Senato. Non solo per garantire un andamento ordinato dei lavori parlamentari. Ma anche perché non di rado in particolare la presidenza della Camera è stata usata come postazione dalla quale picconare i governi e addirittura organizzare fronde parlamentari. Ricorderete il triste caso di Gianfranco Fini.

Ecco un buon motivo per cui sarebbe bene evitare che la presidenza di una delle due Camere finisca per fungere da avamposto di un “partito del Quirinale” o un “partito di Draghi”.

A questo proposito, un nome su cui Giorgia Meloni dovrebbe ponderare bene le sue scelte è quello di Giancarlo Giorgetti. In quanto ministro uscente del governo Draghi, non dovrebbe far parte della nuova squadra. Ma qui a nostro avviso sarebbe più opportuno fare un’eccezione.

La staffetta Mattarella-Draghi

Una eventualità evocata in queste ore – due giorni fa sul Sole24Ore – e alla quale il centrodestra dovrebbe farsi trovare pronto è quella delle dimissioni del presidente Mattarella. Francamente riteniamo molto improbabile che voglia rischiare di consegnare ad una maggioranza di centrodestra l’occasione di eleggere un presidente della Repubblica.

Nel caso, l’accordo prevedrebbe una staffetta con Mario Draghi e proprio questo spiegherebbe come mai l’ex premier stia facendo da garante della Meloni in Europa, secondo quanto riferiscono le cronache.

Riteniamo però che il centrodestra debba resistere a questa tentazione e, se Mattarella si dimettesse, non perdere l’occasione di eleggere una personalità della propria area, in ogni caso puntando senza esitazioni ad una riforma presidenzialista.

La trappola della “soluzione europea”

Purtroppo le dichiarazioni di questi giorni, a meno che non siano ispirate da mero tatticismo, inducono a pensare che al di là del dibattito sui “tecnici” e del toto-nomi, ci sia un problema a monte, un problema nel software. Una inclinazione a subire il pilota automatico attivato dal precedente governo e da Bruxelles.

Anche ieri è arrivata da Giorgia Meloni una dichiarazione a nostro avviso fuori fuoco: “La crisi energetica è una questione europea e come tale deve essere affrontata. Fratelli d’Italia e i Conservatori europei da sempre sostengono che il vero compito dell’Ue dovrebbe essere gestire le grandi sfide continentali difficilmente affrontabili dai singoli Stati membri”.

Parole che seguono quelle dei giorni scorsi a commento del piano da 200 miliardi di euro annunciato da Berlino per affrontare il caro-bollette: “Nessuno Stato membro può offrire soluzioni efficaci e a lungo termine da solo in assenza di una strategia comune, neppure quelli che appaiono meno vulnerabili sul piano finanziario”.

Ci sta forse dicendo che ci vuole più Europa? La Meloni rischia di perseverare nello stesso errore dei suoi predecessori. Per la crisi energetica come per l’immigrazione, invocare la fantomatica “soluzione europea”. Ma l’attesa della soluzione europea si è rivelata essa stessa la soluzione europea

Aspettando Godot. Mentre aspettiamo la “soluzione europea” gli altri Paesi agiscono e poi, di fronte al fatto compiuto, ci indigniamo: “Serve solidarietà”. Prendiamo atto con rammarico che anche i più critici nei confronti dell’Ue ne sono talmente assuefatti da non riuscire più a concepire alcunché al di fuori di essa.

La differenza tra destra e sinistra rischia di ridursi ad una questione di toni: la prima batte cassa sbattendo le scarpe sul tavolo, la seconda inginocchiandosi.