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Polizia del pensiero, liste di proscrizione e commissioni: i metodi delle dittature

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Oltre che essere un Paese di comunicatori, ci scopriamo essere pure un Paese di pensatori. Oddio, le due cose dovrebbero essere sempre legate da un nesso indefettibile che metta il pensiero a monte della comunicazione, ma non è sempre così. Di solito, uno pensa e poi comunica il proprio pensiero, e tale comunicazione è persino costituzionalmente garantita dall’art. 21. Ma accade, al contrario, che prima si comunica e poi si pensa, e non si sta parlando delle voci dal sen sfuggite dell’impulsivo, dell’iroso o, più prosaicamente, della persona grezza. La conseguenza, o meglio, una delle conseguenze di tale nebulosità nella relazione tra causa ed effetto è certamente la crescente smania di vagliare, parametrare e ricondurre a strategie ben precise quelle espressioni del pensiero da parte, guarda caso, di chi non la pensa come noi: non conosciamo il pensiero che (se vi è stato) ha portato ad esprimersi in quel modo o in quell’altro, che dobbiamo subito ascrivere quelle parole pubblicamente proferite al lecito o illecito preconfezionato.

Parrebbe preminente, infatti, poter sbrigativamente incasellare tra i bravi e giusti o tra i malfattori chiunque, in realtà, intendiamo attaccare con ogni mezzo. È su molti ma non tutti i giornali di questi giorni, per fare un esempio che ci aiuta a capire fin dove siamo arrivati, la vicenda del giornalista (pare con simpatie leghiste) sospeso dall’esercizio della professione per due mesi, ad opera del suo ordine regionale di appartenenza, per avere usato l’espressione “clandestini”, laddove avrebbe dovuto definirli, più astutamente, “migranti”. Siamo all’apoteosi del ridicolo, dell’anti-liberalismo e, tutto sommato, del masochismo. Una volta si diceva, con buona pace di tutti, e soprattutto con il consenso del giudice penale, che non si può fare il processo alle intenzioni. Ormai, e lo vediamo tutti ogni giorno, si processano principalmente le intenzioni, peraltro in un tribunale sprovvisto delle più elementari guarentigie per la difesa e dove una ristretta lobby può comminare una sentenza senz’appello. Hai scritto una scemata? Hai postato sui social un termine politically incorrect? Eccoti servito: quel termine, quella parola, quella fotografia o vignetta che hai allegato compare nella lista ufficiale delle cose da non dirsi o non scriversi, per cui la condanna è certa (una volta tanto) ed immediatamente esecutiva. E non basta ancora: tale misfatto comporta l’iscrizione del malcapitato nella lista di proscrizione creata fresca fresca per segnalare urbi et orbi il malfattore. C’è chi pensava, magari, che certi limiti non si sarebbero oltrepassati, che avrebbe prevalso il buonsenso e l’uso della ragione. Sbagliavano.

Proprio nel Paese ch’era considerato orgogliosamente la culla del diritto, dopo millenni di civiltà giuridica improntata al “neminem leadere” del diritto romano e proprio nella nazione che aveva toccato con mano l’aberrazione della persecuzione razziale e d’opinione, necessitiamo forse di una commissione che vagli se una manifestazione del pensiero inciti all’odio? Nella sostanza, la nascente Commissione Segre, compilerà forse delle liste per “segnalare” (e a chi, poi?) qualsiasi persona abbia espresso la propria opinione in modo difforme a ciò che si vorrebbe definire il pensiero lecito? Non teme, la senatrice, certamente animata dai migliori sentimenti, che si possano riproporre, proprio con la “sua” Commissione, comportamenti che hanno portato tanto dolore a lei stessa ed ai suoi parenti ed amici?

A nulla serve far notare agli entusiasti di tale “polizia etica” che il nostro codice penale già prevede e disciplina in modo chiaro e senza grandi possibilità di storture interpretative, reati quali l’ingiuria, la diffamazione, l’apologia del fascismo (ma quella del comunismo è inesistente) e tutta una serie di norme speciali che regolano, ad esempio, l’esercizio della professione giornalistica. Abbiamo proprio bisogno di una nuova commissione, di composizione politica (e quindi già poco trasparente in nuce) per giudicare sul pensiero altrui?

Per restare nell’ambito del proverbio popolare, che spesso esprime sentimenti nobilissimi e radicati in una nazione, potremmo dire: male non fare, paura non avere. Ma chi giudicherà se quelle parole (perché di questo, alla fine, la Commissione Segre si occuperà prevalentemente) usate da Tizio o da Caio siano nella lista del bene o invece in quella del male? Come le liste di proscrizione sui social media, pure certe commissioni che si sostituiscano alla magistratura dovrebbero fare paura, molta paura.

Non si corre forse il rischio di rendere leciti sistemi tipici delle dittature per sbarazzarsi degli oppositori? Buon per chi non lo vede, ma il timore permane in chiunque abbia letto due pagine di storia. Combattere la dittatura (il rischio della quale, in Italia, oggi, è valutabile come quella di essere colpita da un asteroide) con metodi tipici della dittatura è universalmente inaccettabile.

E la sacrosanta divisione dei poteri, e qui parliamo di una pericolosa ingerenza del potere politico a danno di quello giudiziario, dove va a finire? Da quando lo Stato, oltre che reprimere la commissione dei reati, deve anche occuparsi delle opinioni? Se così fosse, tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo augurato il peggio a qualcuno che ci avesse fatto del male, e non per questo siamo stati schedati, segnalati, colpiti nel libero esercizio dei nostri diritti. Prove generali di dittatura allora? Certo che no. Anche il peggiore e più sanguinario dei dittatori è, comunque, persona determinata, disposta a pagare con la vita per le proprie azioni e dotata, quantomeno, della capacità di comandare. E questi lo sono?